CORTE DI APPELLO DI BRESCIA Sez. II ord.665 del 10 marzo 2006
Sulla eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 593 c.p.p., come
modificato dall’art.1 l.n. 46/2006,
Reg. Gen. N. 655/2005 RGTM
ORDINANZA
La Corte di Appello di Brescia, Sezione Seconda Penale, riunita in camera di
consiglio con l’intervento dei Sigg.
1) Dott. Donato Pianta - Presidente
2) Dott. Carlo Zaza – Consigliere rel.
3) Dott. Anna Petruzzellis – Consigliere
Sulla eccezione di illegittimità costituzionale dell’art. 593 c.p.p., come
modificato dall’art.1 l.n. 46/2006, proposta all’odierna udienza dal Procuratore
Generale;
OSSERVA IN FATTO
Con sentenza del Tribunale di Bergamo, sezione distaccata di Grumello del Monte,
in data 10.6.2004 Bellini Anna Maria, Brignoli Ettore e Brignoli Luigi venivano
assolti dalle imputazioni di realizzazione di una discarica non autorizzata di
rifiuti pericolosi, spargimento di rifiuti non pericolosi provenienti da
sbancamento stradale, miscelazione di rifiuti pericolosi con materiali inerti,
realizzazione di opere edilizie senza concessione, lesioni colpose plurime
derivate a diversi cittadini da esalazioni provenienti dalla discarica e
simulazione di reato con falsa denuncia contro ignoti per la diffusione delle
sostanze tossiche di cui ai capi precedenti, commessi in Credaro fino al
25.9.2000. Nel provvedimento si osservava in particolare che nella fattispecie
era accertato un mero abbandono di rifiuti, tale da non integrare realizzazione
di una discarica, ma deposito incontrollato sanzionato amministrativamente
dall’art.14 D.l.vo 22/1997; che non si poteva escludere, in base agli elementi
acquisiti, che le sostanze tossiche fossero state scaricate da terzi nell’area
riconducibile agli imputati; che i materiali inerti rinvenuti nell’area non
costituivano rifiuti, ai sensi dell’art.8 D.l.vo 22/1997, in quanto provenienti
da sbancamento stradale; che non risultava comunque accertato chi degli imputati
dovesse intervenire per ridurre le esalazioni; e che i lavori di sbancamento e
riempimento per i quali era contestata la violazione edilizia erano in realtà
debitamente autorizzati.
Avverso detta sentenza presentava appello il Procuratore della Repubblica presso
il Tribunale di Bergamo, chiedendo venisse invece affermata la penale
responsabilità degli imputati e rilevando che le prove raccolte consentivano di
ritenere accertato che questi ultimi fossero autori dell’abbandono dei rifiuti,
e che i lavori di sbancamento necessitavano di concessione edilizia ed
integravano la realizzazione di una vera e propria discarica abusiva.
All’odierna udienza il Procuratore Generale, preso atto delle limitazioni alla
facoltà di appello del pubblico ministero introdotte dalla sopravvenuta modifica
dell’art.593 c.p.p. per effetto della previsione di cui all’art.1 l.46/2006, e
ritenute dette limitazioni operanti per l’impugnazione in discussione nel
presente procedimento, eccepiva illegittimità costituzionale della norma da
ultima citata con riferimento agli artt.3, 24, 25, 11 e 112 Cost..
OSSERVA IN DIRITTO
Con la norma, della cui legittimità costituzionale il Procuratore Generale
dubita, la disciplina dei casi di appello prevista dall’art.593 c.p.p. è stata
profondamente modificata con particolare riguardo all’appellabilità delle
sentenze di proscioglimento pronunciate in primo grado, ad eccezione delle
sentenze emesse a seguito di giudizio abbreviato e di altre specificamente
indicate.
La previgente normativa escludeva tale appellabilità al terzo comma del citato
art.593, sia per il pubblico ministero che per l’imputato, con riferimento alle
sentenze relative a contravvenzioni punite con la pena dell’ammenda o con pena
alternativa, ed al secondo comma, limitatamente al solo imputato, per le
sentenze di proscioglimento perché il fatto non sussiste o per non aver commesso
il fatto.
Per effetto della recentissima modifica, il secondo comma dell’art.593,
nell’attuale formulazione, consente ora al pubblico ministero ed all’imputato di
appellare le sentenze di proscioglimento solo allorché con i motivi di appello,
ai sensi dell’art.603 cpv. c.p.p., venga richiesta la rinnovazione
dell’istruzione dibattimentale per l’assunzione di prove sopravvenute o scoperte
dopo il giudizio di primo grado, e dette prove abbiano il carattere della
decisività; prevedendosi dal punto di vista procedurale che il giudice
dell’appello, ove in via preliminare non ammetta la rinnovazione
dell’istruttoria, dichiari l’inammissibilità del gravame, e che entro il termine
di quarantacinque giorni dalla notificazione della relativa ordinanza le parti
possano proporre ricorso per cassazione anche avverso la sentenza di primo
grado.
L’art.10 l. 46/2006 prevede poi che la legge stessa trovi applicazione per i
procedimenti in corso; disponendo che l’atto di appello proposto avverso una
sentenza di proscioglimento prima dell’entrata in vigore della nuova normativa
sia dichiarato inammissibile con ordinanza non impugnabile, e che entro il
termine di quarantacinque giorni dalla notificazione di quest’ultima possa
essere presentato ricorso per cassazione avverso la decisione di primo grado.
Tanto premesso, e richiamando quanto precedentemente esposto sulla vicenda
processuale, è evidente la rilevanza nel presente giudizio della questione
proposta dal Procuratore Generale. Al procedimento in esame, per effetto della
citata norma transitoria, deve senz’altro applicarsi, invero, la nuova
disciplina; essendo di conseguenza l’appello in discussione soggetto a
declaratoria di inammissibilità, con la conseguente possibilità, per il pubblico
ministero appellante, di esperire il ben diverso e più delimitato rimedio del
ricorso per cassazione .
Il requisito della rilevanza dell’eccezione è dunque sussistente.
Altrettanto deve concludersi, peraltro, in ordine all’ulteriore presupposto
della non manifesta infondatezza della questione.
E’ opportuno premettere che, per quanto la novella legislativa abbia ad oggetto
l’appellabilità delle sentenze di proscioglimento da parte sia dell’imputato che
del pubblico ministero, è nei confronti di quest’ultimo che la limitazione
dell’accesso al gravame in discussione assume portata preponderante e,
sostanzialmente, rilievo centrale. All’imputato era invero già inibita dalla
precedente normativa la possibilità di appellare sentenze di proscioglimento con
formula piena. Ma, a prescindere da questa pur pregnante circostanza, non
occorre spendere molte parole per evidenziare come in generale, a fronte di una
pronuncia assolutoria, l’interesse ad impugnare si concentri in concreto sul
pubblico ministero più che sull’imputato.
L’incidenza di una siffatta limitazione sui poteri di impugnazione del pubblico
ministero non richiede, a sua volta, particolare commento. E’ sufficiente
osservare come per effetto di essa l’ufficio della pubblica accusa si veda
privato nella grandissima maggioranza dei casi del potere di appellare una
sentenza di proscioglimento in primo grado. L’esercizio di tale potere
presuppone infatti, nell’attuale previsione normativa, che nuove prove siano
emerso dopo il giudizio di primo grado; e, per giunta, che esse si presentino
come decisive per il giudizio. Ove la marginalità statistica di una situazione
così descritta può essere agevolmente apprezzata da chiunque abbia minima
esperienza delle cose giudiziarie.
Una deprivazione di facoltà processuali di tale portata impone un controllo
sulla ragionevolezza della relativa previsione normativa; e ciò soprattutto nel
momento in cui le predette facoltà, in quanto riferite alla figura istituzionale
del pubblico ministero, si ricollegano a valori di fondamentale rilevanza
costituzionale.
Viene in risalto in primo luogo, a questo proposito, il principio
dell’obbligatorietà dell’esercizio dell’azione penale, da parte del pubblico
ministero, di cui all’art.112 Cost..
La centralità del principio in parola nel sistema complessivo della
giurisdizione penale è data, vale la pena qui ricordarlo, non solo dal suo
contenuto specifico; ma altresì dalla sua funzionalità alla concreta attuazione
di valori a loro volta caratterizzati da valenza costituzionale.
È dato acquisito da tempo nella stessa giurisprudenza costituzionale, formatasi
sulle norme del codice di procedura penale ora vigente a partire dalla sua
entrata in vigore, che l’esercizio dell’azione penale da parte del pubblico
ministero, ufficio non a caso interno ed integrante dell’ordine giudiziario
nella visione del legislatore costituente, sia manifestazione del fondamentale
principio di legalità, di cui all’art.25 Cost., nel suo aspetto sostanziale; in
quanto esso esprime, cioè, la necessità che alla commissione di reati, lesivi di
interessi e valori spesso a loro volta di rango costituzionale o comunque di
elevata rilevanza sociale, segua l’inflizione di una pena .
Non va peraltro trascurato, in questa prospettiva, il rilievo del diritto di
difesa garantito dall’art.24 Cost. anche alle parti offese dei reati. Diritto
che non può ritenersi attuato dalle sole norme connesse all’istituto della
costituzione di parte civile nel processo penale; rispetto al quale, a dire il
vero, l’art.6 l.46/2006, modificando l’art.576 c.p.p. con l’escludere il
riferimento operativo della facoltà di impugnazione della parte civile al mezzo
di gravame previsto per il pubblico ministero, continua a rendere possibile
l’appello di essa parte civile avverso la sentenza di proscioglimento di primo
grado, sia pure ai soli effetti della responsabilità civile. L’esercizio
dell’azione penale da parte del pubblico ministero vale infatti ad offrire alle
vittime dei reati l’essenziale tutela del loro legittimo interesse ad ottenere
giustizia, a prescindere dalle possibilità che dette vittime in concreto abbiano
di accedere al processo nelle forme dell’azione civile ivi direttamente
intrapresa.
Detto questo, è ben vero che la giurisprudenza della Corte Costituzionale ha
affermato come il potere di appello del pubblico ministero non possa essere
ricondotto all’obbligo di esercitare l’azione penale . Ma è vero altresì che il
principio è stato dalla stessa giurisprudenza successivamente chiarito nel senso
che la facoltà di impugnazione non costituisca “estrinsecazione necessaria”
dell’esercizio dell’azione penale . Detta facoltà rappresenta dunque non più che
uno dei possibili sviluppi, e non il necessario prolungamento dell’azione
penale; ma, in questa prospettiva, limitazioni particolarmente consistenti al
potere di impugnazione non possono che riverberarsi sulla completezza delle
possibilità di esercizio dell’azione. E qui ci troviamo di fronte, come si è
visto, ad una deminutio del potere di appello del pubblico ministero tale da
ridurre lo stesso a casi marginali, per non dire estremi.
Avuto riguardo al contesto di valori costituzionalmente rilevanti di cui le
opportunità di esercizio dell’azione penale sono, per quanto esposto,
espressione, diviene assolutamente doveroso interrogarsi sulla possibilità, per
il legislatore ordinario, di apporre a detto esercizio limitazioni di tale
entità nell’ambito della normale discrezionalità legislativa; e sulla necessità,
di contro, che una scelta di questo genere debba essere ancorata rigorosamente
ad un canone di ragionevolezza.
Vi è però anche un altro profilo di rilevanza costituzionale che deve essere
oggetto di analisi in questa prospettiva; profilo che attiene al principio del
contraddittorio processuale posto dall’art.111 Cost..
E’ appena il caso di precisare che qui non si intende fare riferimento al
principio del contraddittorio nella formazione della prova, di cui al quarto
comma della norma costituzionale appena citata. Oggetto di attenzione deve
essere invece il più generale richiamo del secondo comma dell’articolo alla
necessità che il processo si svolga nel contraddittorio fra le parti ed in
condizioni di parità delle stesse.
Il contraddittorio, invero, assurge qui a valore che pervade il processo nella
sua interezza; e quindi necessariamente coinvolge la fase dell’appello, che del
processo costituisce passaggio essenziale. Ed è, soprattutto, valore in sé
considerato, a prescindere dai contingenti interessi delle parti; il
contraddittorio è binario privilegiato del percorso processuale, garanzia di
approssimazione quanto più efficace possibile alla verità. Ed in questa linea,
la parità fra le parti, prima che tutela delle stesse, è oggettiva esigenza di
un contraddittorio reale.
Se così è, la parità di cui si parla non può che inerire anche alla fase
dell’appello; e, nell’ambito di essa, al suo momento introduttivo e fondante,
ossia la definizione dei casi in cui è consentito appellare.
Ed allora, non è chi non veda come la norma della cui legittimità si discute
introduca un evidente dato di squilibrio fra le parti; impedendo quasi
totalmente al pubblico ministero l’appello in caso di esito assolutorio del
giudizio di primo grado, laddove nell’opposto risultato della pronuncia di
responsabilità è concessa all’imputato piena facoltà di impugnazione.
Questa Corte non ignora che la recente giurisprudenza costituzionale ha ritenuto
che il principio della parità nel contraddittorio non comporti necessariamente
l’identità fra i poteri processuali delle parti. Ma, anche in questo caso, ciò
che è stato escluso è un vincolo di derivazione necessaria ed assoluta fra i due
elementi. Rimane tutto da valutare, quindi, se in concreto la disparità fra
determinati poteri, a cagione della loro rilevanza, non alteri in misura
intollerabile l’equilibrio imposto dalla norma costituzionale; e, soprattutto,
se di tale disparità non vada pretesa una giustificazione che la renda
ragionevole.
In questa ottica, le possibilità di appello, per quanto detto pocanzi,
ineriscono ad uno snodo fondamentale del processo; una loro impari distribuzione
fra le parti rientra dunque fra quelle situazioni nelle quali la non
sovrapponibilità dei poteri processuali pregiudica significativamente il
principio del contraddittorio.
Anche per questo aspetto dunque, come per quello precedentemente esaminato,
occorre sottoporre la scelta legislativa che ha prodotto la modifica dell’art.593
c.p.p. ad un accurato scrutinio di ragionevolezza.
Le diverse considerazioni che precedono portano a quello che, a questo punto, si
presenta come il cuore del problema; vale a dire, la compatibilità della norma
esaminata con il principio di ragionevolezza, desumibile, come è noto, dall’art.3
Cost.. Ragionevolezza che deve però essere valutata nella prospettiva della
tollerabilità del sacrificio che la norma impone agli altri valori
costituzionali fin qui menzionati; segnatamente il principio dell’obbligatorietà
dell’azione penale, nel suo profilo di stretta funzionalità ai valori del
principio di legalità sostanziale e del diritto di difesa delle vittime dei
reati, ed il principio del contraddittorio nella parità delle parti, che dà
forma al giusto processo.
Ebbene, un esame condotto in questa direzione non può che condurre ad un
giudizio di irragionevolezza della norma; dovendosi ritenere il vulnus inferto
ai principi appena citati non giustificato da alcuna esigenza meritevole di
considerazione.
E’ da escludersi in primo luogo la ricorrenza nella fattispecie di ragioni
corrispondenti o similari a quelle che ispirano la previsione di altre e diverse
limitazioni dei poteri processuali del pubblico ministero; giudicate coerenti
con il dettato costituzionale, sotto il profilo del principio del
contraddittorio, dalle già segnalate decisioni della Corte Costituzionale. Quali
l’esclusione della possibilità per il pubblico ministero di presentare l’atto di
impugnazione nella cancelleria del tribunale, diversa dal luogo di emissione del
provvedimento impugnato, ove lo stesso si trovi, di cui all’art.582 cpv. c.p.p.
, evidentemente sorretta da motivi di celerità processuale e comunque posta a
fondamento di una limitazione di ben minore consistenza delle facoltà
dell’organo dell’accusa; o l’inappellabilità, anche in prospettiva incidentale,
da parte del pubblico ministero, della sentenza emessa a seguito di giudizio
abbreviato, di cui all’art.443 comma terzo c.p.p., ove ad analoghe ragioni di
speditezza si aggiunge l’intento di favore per l’adozione di riti deflattivi .
Nel caso di specie, non è ravvisabile alcun risultato di accelerazione dell’iter
processuale che giustifichi la scelta legislativa la sostanziale soppressione di
un mezzo di impugnazione disponibile al pubblico ministero.
Neppure può attribuirsi rilievo alla particolare posizione istituzionale che il
pubblico ministero assume nel nostro ordinamento giudiziario; posizione
caratterizzata dalla doverosa ricerca di prove favorevoli all’imputato in sede
di indagine e da un’obiettiva considerazione degli elementi a carico
dell’imputato stesso, che non vincola l’ufficio dell’accusa a richieste che
siano necessariamente intese a sollecitare una conclusione in termini di
condanna. Questi rilievi sono infatti superati nel momento in cui ci si trova
nella fase processuale a cui attiene la norma in discussione; che presuppone la
conseguita determinazione del pubblico ministero di impugnare la pronuncia
assolutoria di primo grado per ottenere una sentenza di condanna, e quindi una
valutazione culminata, pur nella particolare prospettiva che connota l’operato
dell’ufficio d’accusa, nel giudizio di sussistenza di congrue prove a carico
dell’imputato. Il che da un lato pone il pubblico ministero nella condizione di
proseguire in secondo grado nell’esercizio dell’azione penale in attuazione dei
valori di legalità e difesa sociale di cui si è ampiamente detto; e dall’altro
esige che il processo mantenga un equilibrato contraddittorio fra tali ragioni e
quelle della difesa dell’imputato, perché nessuna opportunità di ricerca della
verità venga ad essere sottratta al giudizio.
Non può infine essere invocata, come correttamente osservato dal Procuratore
Generale, la previsione del primo comma dell’art.2 del protocollo n.11 della
Convenzione Europea sulla salvaguardia dei diritti dell’uomo e delle libertà
fondamentali, ratificato con l.296/1997. Se è vero infatti che la citata
disposizione prevede che chiunque venga dichiarato colpevole di un reato da un
giudice di primo grado ha il diritto di sottoporre ad un ufficio della
giurisdizione superiore la dichiarazione di condanna, è vero altresì che il
secondo comma dello stesso articolo consente eccezione al principio nel caso in
cui la persona interessata sia stata giudicata in prima istanza da un tribunale
della giurisdizione più elevata o sia stata dichiarata colpevole e condannata a
seguito di un ricorso avverso il suo proscioglimento; indicazione, quest’ultima,
puntualmente corrispondente alla normativa preesistente all’intervento
legislativo oggetto della questione.
Non può sottacersi, di contro, come la nuova disciplina dell’art.593 c.p.p. crei
un’irragionevole disparità di trattamento laddove per un verso impedisce al
pubblico ministero l’appello contro sentenze di proscioglimento e per altro
mantiene la possibilità per lo stesso pubblico ministero di appellare una
sentenza di condanna; in tal modo privilegiando la cura di un interesse
processuale di indubbiamente minore consistenza.
Queste considerazioni inducono a ritenere non manifestamente infondata la
questione di legittimità della norma in oggetto con i richiamati artt.24, 111 e
112 della Costituzione; e quindi esistenti i presupposti di legge perché gli
atti vengano trasmessi alla Corte Costituzionale per la decisione in merito, con
la conseguente sospensione del procedimento.
P. Q. M.
La Corte di Appello di Brescia, Sezione Seconda penale,
visto l’art. 23 l. n.87 del 1953,
dichiara
rilevante ai fini della definizione del giudizio e non manifestamente infondata
la questione di legittimità costituzionale relativa al contrasto dell’art. 593
cpp, come modificato dall’art. 1 l. n. 46/2006, con gli artt. 3, 24, 111, 112
Cost.
Dispone la trasmissione degli atti alla Corte Costituzionale, e manda alla
Cancelleria per la notifica dell’ordinanza al Presidente del Consiglio dei
Ministri ed ai Presidenti delle due Camere del Parlamento, nonché alle parti
processuali, all’atto del deposito del provvedimento.
Sospende il giudizio in corso.
Brescia, 10.3.2006
Il Presidente
Il Consigliere rel.