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Riflessioni sul concorso
di Matteo Frasca (corte d'appello Palermo)

Sull'esperienza appena conclusa come componente della commissione di esami dell'ultimo concorso per l'accesso in magistratura.
Ho da poco concluso la mia esperienza di componente della commissione di concorso per uditore giudiziario ed approfitto della notizia della recente immissione in servizio dei nuovi colleghi per esporre alcune modeste riflessioni.
Probabilmente molti di noi avranno la curiosità di sapere “chi” saranno i nuovi magistrati, quale aspettativa, in momenti così difficili, potremo riporre su di loro, se saranno in grado di rappresentare quel modello di Magistrato in cui ci riconosciamo.
Ritengo, tuttavia, che dall’osservatorio della commissione di esami sarebbe azzardato esprimere opinioni al riguardo. Se é già difficile farlo all’esito del tirocinio (anche se proprio il tirocinio dovrebbe servire anche a questo ed ad adottare le determinazioni conseguenti), è praticamente impossibile sulla base della lettura delle prove scritte e di quella orale, e ciò innanzitutto per l’ovvia ragione che la capacità di svolgere due temi di diritto e di superare una prova teorica orale non sempre è indice della capacità di svolgere adeguatamente la funzione, costituendone, a mio avviso, soltanto uno dei presupposti.
Se a ciò si aggiungono le altre variabili, come la fortuna di conoscere meglio (o la sfortuna di conoscere meno bene) gli argomenti oggetto dei temi, - fattore ancora più rilevante in un concorso in cui le prove scritte sono state soltanto due (nel concorso in questione è mancata la prova di diritto civile …) -, la tensione e la capacità reattiva di ciascun candidato, le possibili valutazioni erronee della commissione, (anche se su questo punto segnalo che, per quanto mi consta, hanno proposto ricorso amministrativo contro il provvedimento di non ammissione circa l’1% degli esclusi e il giudice amministrativo non ha accolto nessuna richiesta di sospensiva), è evidente che un giudizio di professionalità diviene ancor più arduo per difetto di ragionevoli indici di riscontro. Ma ciò forse costituisce il limite fisiologico di un sistema di selezione fondato sostanzialmente solo su conoscenze teoriche (e francamente non riesco a ipotizzarne uno diverso a meno di non volere riesumare i castelliani test psicologici) e che rinvia le verifiche a momenti successivi.
Credo, quindi, che alcune considerazioni possano essere svolte soltanto con riferimento a dati numerici.
Innanzitutto, il numero degli ammessi è stato di oltre 18.000, di cui circa 2.000 ammessi all’esito dei quiz e tutti gli altri perché appartenenti alle categorie degli esonerati dalla prova preselettiva; degli ammessi si sono presentati oltre 6.000 candidati e tra gli stessi hanno consegnato entrambe le prove 4.009, che credo sia il numero più alto mai registrato. Peraltro, a fronte di un dato così elevato gli ammessi alle prove orali sono stati 342, pari all’8,53%: orbene, se ciò da un lato è indicativo di una persistente serietà nella selezione (pur con i limiti sopra richiamati), dall’altro crea non poche perplessità sul livello medio di preparazione dei partecipanti (in taluni casi, vi risparmio le indicibili citazioni solo per pudore, ma vi assicuro che hanno indotto seri dubbi sulle modalità di conseguimento del diploma di scuola media inferiore), e sulle cause che lo determinano, e dovrebbe altresì indurre a riflettere sulla, per certi versi connessa, (in)opportunità di indizione di concorsi per un numero assai elevato di posti. Bandire un concorso per 500 posti, come sembra che tra poco avverrà, può essere pericoloso in quanto ragionevolmente rende prevedibile la partecipazione di tantissimi candidati con l’effetto di allungare oltremodo i tempi di definizione del concorso stesso e di comportare il contestuale espletamento di più concorsi con le sovrapposizioni che ne derivano, può far rischiare un allentamento del rigore valutativo per il timore di lasciare vacanti troppi posti, o, diversamente, mantenendo (come credo sia doveroso) un criterio selettivo serio, potrebbe far aumentare ulteriormente, e di molto, il divario tra posti messi a concorso e posti coperti, finendo così per portare, sia pur involontariamente, acqua al mulino di chi vuol ricorrere a soluzioni diverse dal concorso ordinario per la copertura dei posti vacanti.
Altro dato assai significativo è quello dell’età, valutata con riferimento alla data di immissione in servizio, dei vincitori (pari complessivamente a 319 proclamati dalla commissione, ed ai quali vanno aggiunti altri 3, che, pur non avendo riportato alcuna insufficienza, non avevano raggiunto la votazione minima prevista e pertanto erano stati dichiarati non idonei, ma che sono stati dichiarati vincitori con provvedimento del Ministro della Giustizia).
Orbene, 188 vincitori (pari al 58,93%) sono di età compresa tra 30 e 35 anni, e la percentuale aumenta al 70,84% (226) se si considerano i vincitori tra 29 e 35 anni; complessivamente i vincitori con oltre 30 anni sono 215 (pari al 67,39%) e tra questi vi sono 2 a 43 anni, 2 a 41 anni, 5 a 39 anni, 5 a 38 anni, 6 a 37 anni e 6 a 36 anni. I vincitori compresi tra 25 e 27 anni sono solo 31 (pari al 9,71%) e quelli a 25 appena 3 (0,94%).
Anche questi numeri inducono a qualche considerazione.
Faccio parte di quella categoria di magistrati che hanno avuto la possibilità (e la fortuna) di vincere il concorso giovani, perché il corso di laurea durava quattro anni, si poteva partecipare al concorso subito dopo la laurea, i concorsi venivano banditi con maggiore frequenza (anche due all’anno), i partecipanti erano in numero ragionevole, ecc.
Oggi ciò non è possibile (o almeno non lo è stato negli ultimi anni): il corso di laurea è divenuto quinquennale e dopo la laurea occorre conseguire altri titoli per partecipare (ed altra preparazione per vincere), il rallentamento dei bandi di concorso (la mia commissione è relativa al concorso bandito con DM 28 febbraio 2004) ha inevitabilmente fatto aumentare in modo straordinario il numero dei partecipanti con l’effetto di dilatare ulteriormente i tempi di definizione della procedura.
Non tutti possono o vogliono attendere tempi così lunghi: non tutti “possono”, perché è evidente che sette, otto o dieci anni senza reddito in attesa del superamento del concorso (per di più con le incognite che presenta) non è una condizione che tutti possono permettersi e che, in ogni caso, potrebbe avere effetti usuranti; così come, per altro verso, continuare a studiare per il concorso lavorando non sempre consente di maturare un livello di preparazione adeguato. Non tutti “vogliono” perché la possibilità di diversi e più rapidi sbocchi professionali, di analogo o anche maggiore prestigio, rischia di farci perdere per strada le “teste migliori”.
Ma l’elevazione dell’età di immissione in servizio potrebbe avere delle ricadute significative anche in materia di trattamento retributivo e previdenziale che, per ovvie esigenze di spazio, mi limito solo ad accennare.
Credo che le esigenze di vita a 23-25 anni siano del tutto diverse di quelle a 30-35 anni, quando spesso si è creata una famiglia, sicché forse dovrebbe essere rivista, senza preconcetti e senza sterili contrapposizioni, la questione del trattamento retributivo, segnatamente con riferimento a quello previsto per i primi anni di lavoro, in cui potrebbe presentare peculiarità non trascurabili.
Altrettanto rilevante mi pare possa essere la questione previdenziale, posto che la contrazione della durata della vita lavorativa finisce per incidere in modo rilevante anche sul trattamento pensionistico, rendendo ancor più attuali le già calde questioni sulla previdenza integrativa e complementare.
Matteo Frasca, corte di Appello Palermo

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