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Riforme costituzionali e Corte di cassazione

di Franco BILE

 

 

Gli organizzatori di questo incontro mi hanno proposto di chiudere i lavori. E non ho saputo dire di no, pur consapevole delle difficoltà che avrei incontrato. Però alla fine di questo intenso pomeriggio sono ben lieto di avere accettato.
Qui oggi ho sentito parlare la Corte di cassazione. E non posso dimenticare di avere trascorso nelle sue aule – fra cui questa, dove la nomofilachia é esercitata al più alto livello – i trenta anni centrali della mia vita, professionale e non solo, fino al giorno in cui proprio la fiducia della Corte mi ha permesso di varcare la soglia della Consulta, come civilista pre-stato per nove anni al diritto costituzionale.
Finora – dall’introduzione di Franco Coppi agli interventi che sono seguiti – abbia-mo ascoltato una serie di preoccupate riflessioni sulle proposte di riforme legislative quasi quotidianamente annunziate non tanto in tema di giustizia, come si dice nel mondo me-diatico, quanto piuttosto di ordinamento giudiziario: e non si tratta certo di sinonimi. Al riguardo avrei poco da aggiungere.
Ma alcune di tali riforme, e le più incisive, comporterebbero radicali revisioni del ti-tolo quarto della seconda parte della Costituzione, concernente “la magistratura”. Perciò – anche nella prospettiva di additare ai riformatori il quadro sistematico con il quale la loro fatica dovrà pur misurarsi – sembra opportuno un sintetico richiamo all’abicì della Carta fondamentale della Repubblica.
E forse non é male che questo richiamo sia fatto da un vecchio superstite della gene-razione che aveva più o meno venti anni quando la Costituzione entrò in vigore, il 1° gen-naio del 1948. Quella generazione é in sostanza l’ultima che abbia vissuto l’atmosfera, sicu-ramente dura ma al tempo stesso vitale e coinvolgente, dell’immediato dopoguerra in cui la Repubblica é nata.
Gli italiani avevano pagato un prezzo altissimo, in termini di morte sangue fame e inimmaginabili orrori, per vedere una dittatura ventennale finire travolta dalle macerie di una tragica guerra da essa stessa voluta ed esaltata, al seguito di un’altra dittatura che, nel-la terra di Goethe Kant e Beethoven, era giunta al potere sull’onda di successi elettorali.
Perciò – quando nel 1946 si votò per il referendum istituzionale e per l’elezione dell’Assemblea Costituente che avrebbe scritto la nuova Costituzione (e fu la prima elezio-ne politica con suffragio esteso alle donne e quindi realmente universale) – essi sentivano forte l’esigenza non solo di rimettere in piedi le case le strade e le fabbriche distrutte ma anche di fondare, per sé e per chi sarebbe venuto dopo, una società più libera e più giusta in cui vicende così atroci non potessero ripetersi mai più.
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La risposta piena e puntuale a questa pressante esigenza di libertà e di giustizia é la Costituzione. Scrivendola i Costituenti si sono ispirati al patrimonio culturale del costituzio-nalismo occidentale: garanzia dei diritti inviolabili della persona, eguaglianza, giustizia so-ciale, pluralismo politico, organizzazione di governo fondata sul principio democratico e sul bilanciamento dei poteri, principio di legalità.
Ma essi sapevano bene di vivere nel mondo reale e non in quello auspicato dall’utopia, come testimonia lo stretto rapporto che lega i due commi dell’art. 3. Perciò, nel porre la persona umana e i suoi diritti fondamentali al centro dell’ordinamento costituzio-nale della Repubblica, hanno mostrato di essere consapevoli che in futuro quei diritti a-vrebbero potuto subire attacchi della più varia natura, non esclusi quelli portati con stru-menti di carattere legislativo: e si sono preoccupati di predisporre le garanzie necessarie ad evitare rischi del genere. Ne costituisce chiarissimo esempio, tra gli altri, l’art. 32, il quale – dopo avere affermato che nessuno può essere obbligato a un determinato trattamento sa-nitario se non per disposizione di legge  – ammonisce solennemente e severamente che la legge non può in nessun caso violare i limiti imposti dal rispetto della persona umana. Sono rimasto sempre colpito da questa formula (la legge non può in nessun caso) che con-tiene una delle espressioni più forti dell’intero testo della Carta, a testimonianza del suo in-tento di vincolare i futuri legislatori all’osservanza dei principi e delle regole costituzionali.
Ecco perché nel disegno della Costituzione l’ordinamento democratico della Repub-blica é una sapiente architettura di pesi e contrappesi volti in sostanza a difendere la de-mocrazia da se stessa e dai microbi letali che essa, per fedeltà alla propria natura, accetta di portare in sé. E ciò spiega perché la Costituzione é rigida, come del resto tutte le Costitu-zioni europee del dopoguerra. Una Costituzione é rigida o non é: se infatti non lo fosse – e quindi non prevedesse meccanismi di difesa rispetto alle violazioni di qualsiasi provenien-za, anche se derivanti da leggi ordinarie votate dal Parlamento o dai Consigli regionali – ri-schierebbe la fine dello Statuto albertino, tanto flessibile da riuscire a convivere anche con le sciagurate leggi razziali del 1938.
In realtà – come afferma una significativa dottrina – lo Stato costituzionale segna rispetto all’ottocentesco Stato di diritto non tanto un completamento, quanto piuttosto una sorta di rottura, perché ravvisa nella Costituzione non una legge come le altre, solo un po’ più solenne, ma come qualcosa di radicalmente diverso, tanto che la legge ordinaria riesce a manifestare il suo vero contenuto proprio nel confronto con il parametro costituzionale e nel crogiuolo del giudizio di costituzionalità.
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La verità é che in una democrazia costituzionale non ci sono sovrani: o meglio, l’unico vero sovrano é la Costituzione alla quale sono subordinati non soltanto tutti i citta-dini, ma tutti i poteri dello Stato e delle autonomie.
E a proposito di sovranità é d’obbligo ricordare che l’art. 1, subito dopo aver intesta-to la sovranità al popolo, chiarisce che esso la esercita nelle forme e nei limiti della Costitu-zione. Il riferimento alle forme rimanda con ogni evidenza alle regole del regime parlamen-tare descritto nella seconda parte della Carta; il riferimento ai limiti significa invece con al-trettanta chiarezza che l’esercizio della sovranità popolare non é illimitato, perché non può stravolgere le scelte di fondo fatte una volta per sempre dall’Assemblea costituente, a suo tempo dal popolo democraticamente eletta. Si può quindi ben dire che, dopo di allora, su quelle scelte di fondo – in questa democrazia, quale é stata voluta dall’esercizio del potere costituente – non si può più votare.
Poco più avanti l’art. 11 – una delle norme più presbiti della Carta, capace di guarda-re (e vedere) molto lontano – proclama che, per contribuire a fondare un ordinamento atto ad assicurare pace e giustizia fra le Nazioni, l’Italia consente, in condizioni di reciprocità, alle necessarie limitazioni di sovranità. Proprio la previsione costituzionale del carattere non illimitato della sovranità ha consentito di ratificare con legge ordinaria il trattato isti-tutivo della Comunità economica europea, poi Comunità europea, poi Unione Europea.
Da ultimo, l’art. 139 chiude la Carta affermando perentoriamente che la forma re-pubblicana non può essere oggetto di revisione costituzionale.  Ora – come sa bene chi ha qualche dimestichezza con gli studi dei costituzionalisti e con la giurisprudenza costituzio-nale – nel concetto di forma repubblicana non c’é solo il ripudio dell’istituto monarchico: c’é piuttosto il riferimento ai principi supremi dell’ordinamento costituzionale che – se-condo una fondamentale sentenza resa dal giudice delle leggi nel 1988 – appartengono al-l'essenza dei valori sui quali la Costituzione si fonda e quindi valgono più delle altre norme o leggi di rango costituzionale, al punto che neppure da esse possono essere sovvertiti o modificati.  Da questa premessa la Corte ha desunto la propria competenza a giudicare sul-la conformità di tali leggi a quei principi: se così non fosse, concluse la sentenza, si perver-rebbe all'assurdo di considerare il sistema di garanzie giurisdizionali della Costituzione come difettoso o non effettivo proprio in relazione alle sue norme di più elevato valore.
É nel rispetto di questi limiti, con lo speciale procedimento di cui all’art. 138, e salvo il citato sindacato successivo della Corte costituzionale, che si apre lo spazio entro cui il Parlamento può esercitare il suo potere di revisione della Carta.
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Al riguardo si é spesso distinto fra la prima parte della Costituzione (concernente i diritti e i doveri dei cittadini, considerati alla luce dei principi fondamentali posti nei primi dodici articoli) e la seconda (concernente invece la struttura ordinamentale della Repub-blica). E si é ritenuto che su quest’ultima aggiustamenti più o meno incisivi siano consenti-ti con maggiore facilità che non rispetto alla prima.
Anche qui é necessario un richiamo alla prudente capacità di andare al fondo delle cose e quindi di saperle, di volta in volta, collegare o distinguere. In realtà la seconda parte della Costituzione é per molti versi strettamente legata alla prima, anzi si pone rispetto ad essa in un rapporto di mezzo a fine. Non si può dimenticare che spesso la tutela costituzio-nale dei diritti fondamentali riconosciuti nella prima parte della Carta è assicurata con la riserva di legge, per cui spetta alla legge stabilire in quali casi l’esercizio di quei diritti pos-sa essere limitato; e talora anche con la riserva di giurisdizione, per cui é il giudice che de-ve nei singoli casi verificare la ricorrenza dei presupposti previsti dalla legge: viene subito alla mente l’art. 13 in tema di libertà personale.
É perciò opportuno riflettere a fondo sul monito formulato da Leopoldo Elia poco prima della sua prematura scomparsa. Taluni squilibri eventualmente provocati – egli disse – in sede di revisione costituzionale, ad esempio, nel funzionamento del Parlamento o degli organi di garanzia o nell’ordinamento costituzionale della magistratura potreb-bero finire per compromettere la tutela di situazioni soggettive considerate nella prima parte della Costituzione.
Questi concetti del resto si ritrovano chiaramente espressi nella giurisprudenza del-la Corte costituzionale. Una sentenza di qualche anno fa (n. 171 del 2007) – nel dichiarare inco-stituzionale un articolo di un decreto-legge per evidente difetto dei presupposti di necessi-tà e d’urgenza richiesti dall’art. 77 – ha rilevato che la disciplina costituzionale concernen-te l’emanazione delle leggi e degli atti aventi efficacia di legge riguarda sì in primo luogo i rapporti intercorrenti fra gli organi titolari della potestà legislativa, e quindi di sicuro at-tiene all’ordinamento della Repubblica stabilito nella seconda parte della Costituzione. Ma ha poi significativamente aggiunto che la disciplina dei rapporti fra tali organi è anche fun-zionale alla tutela dei valori e diritti fondamentali garantiti dalla prima parte e addirittura caratterizza il sistema costituzionale nel suo complesso. Con queste parole la Corte con-ferma che da eventuali modifiche del funzionamento degli organi nei quali l’ordinamento della Repubblica é strutturato potrebbero derivare conseguenze peggiorative sul livello di tutela dei diritti fondamentali dei cittadini. Ed é bene che gli interessati ne siano avvertiti.
Quindi la distinzione fra le varie parti della Carta costituzionale é argomento che – se non maneggiato con estrema cautela – é purtroppo suscettibile di condurre ad esiti non conformi ai valori fondamentali su cui essa é fondata.
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Ma da qualche tempo stanno diventando sempre più frequenti le proposte di modi-fica di norme della stessa prima parte della Costituzione, a cominciare dal suo solenne incipit secondo cui l’Italia é una repubblica democratica fondata sul lavoro.
Periodicamente in questo riferimento al lavoro come fondamento della Repubblica si usa ravvisare l’eco di visioni del mondo irrimediabilmente superate e unanimemente condannate. La migliore risposta a questi timori si ritrova, a mio avviso, nelle parole di un uomo di cui pronunzio il nome in questa aula con consapevole rispetto. Parlo di Salvatore Satta, il quale – aprendo all’Università di Trieste l’anno accademico 1945-46, ben prima quindi della nascita della Repubblica e dell’elezione dell’Assemblea costituente – aveva po-sto in risalto come la tradizionale soluzione del problema della democrazia sulla base delle antiche e perenni libertà formali non bastasse più a garantire la libertà sostanziale cui il mondo anelava; e aveva auspicato che proprio questa libertà sostanziale restituisse dignità all’uomo, ad ogni uomo, non qualificato da altra ricchezza che quella del proprio lavoro.
Chi riesca a leggere l’art. 1 alla luce di questo solenne monito può perciò fondata-mente ritenere (e apprezzare) che esso abbia inteso fondare la Repubblica su un valore – il lavoro – che é l’esatto opposto del privilegio. E davvero non oso pensare che oggi qualcuno voglia teorizzare o auspicare una società fondata sul privilegio.
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In realtà talune proposte di modifica della Costituzione (anche nella sua prima par-te) sono formulate al non mascherato fine di assicurare al potere legislativo una qualche  supremazia nei confronti degli altri poteri.
In questi casi – a tacer d’altro – si può dubitare che i proponenti conoscano i princi-pi informatori dell’ordinamento dell’Unione Europea e la giurisprudenza della Corte di giustizia di Lussemburgo. Penso alla nota sentenza Francovich del 1991 secondo la quale, a determinate condizioni, gli Stati membri sono civilmente responsabili nei confronti dei cit tadini dell’Unione per i danni ad essi arrecati non emanando tempestivamente negli ordi-namenti interni leggi di attuazione di direttive europee non immediatamente applicabili. E alla altrettanto nota Brasserie du pêcheur del 1996, per la quale il principio che gli Stati membri devono risarcire i danni cagionati ai privati mediante violazioni del diritto comu-nitario provocate da misure legislative di diritto interno vale pure se la violazione concerna norme comunitarie direttamente applicabili.
Pertanto l’ordinamento dell’Unione Europea di cui siamo parte ha già introdotto nel nostro diritto, come in quello degli altri Stati membri,  l’istituto della responsabilità civile dello Stato legislatore, trattato come un qualsiasi danneggiante tenuto a risarcire i danni cagionati al cittadino dell’Unione in conseguenza delle modalità di esercizio (o del mancato esercizio) del potere legislativo. Si tratta di un istituto che forse qualche decennio fa ai no-stri maestri sarebbe apparso del tutto inconcepibile: e invece ormai hoc jure utimur.
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Questo complesso scenario spiega l’importanza dei compiti affidati dalla Costituzio-ne agli organi di garanzia: Presidente della Repubblica, Corte costituzionale, magistratura. Spetta ad essi – ciascuno per la sua parte e con i suoi mezzi – difendere non le proprie po-sizioni di potere, come talora banalmente si ripete, ma la primazia della Costituzione e dei suoi principi.
In particolare alla magistratura il titolo quarto della seconda parte della Carta affida il compito di tutelare in modo effettivo – secondo i canoni del giusto processo resi espliciti dal testo, riformato nel 1999, dell’art. 111 – i diritti delle persone ogni volta che siano viola-ti o comunque contestati.
L’esigenza di effettività della tutela giurisdizionale comporta ineludibilmente che il giudice sia terzo e imparziale, proceda nel contraddittorio tra le parti e in condizioni di parità, assicuri alle parti l’esercizio del diritto inviolabile di difesa (di cui all’art. 24, comma 2) e definisca il processo entro una ragionevole durata.
Ora accade che tra questi requisiti intercorrano non di rado rapporti di carattere conflittuale: così al massimo di tutela del diritto di difesa corrisponde il massimo di durata del processo e ogni modifica tendente a ridurre la durata inevitabilmente comporterà un restringimento delle facoltà difensive. Poiché il problema posto dalla frizione tra più diritti egualmente dotati di rilievo costituzionale non può risolversi come se fra essi esistesse una sorta di gerarchia, ne consegue che ciascun diritto deve ricevere dall’ordinamento la mas-sima tutela compatibile con il rispetto del nucleo incomprimibile dell’altro. Occorre cioè procedere a operazioni di bilanciamento, affidate alle scelte del Parlamento e all’eventuale successivo controllo di costituzionalità.
Sembra quindi chiaro che – se il disegno costituzionale concepisce il processo in funzione dell’effettiva tutela dei diritti delle persone – le riforme realmente necessarie so-no quelle idonee ad ampliare e migliorare siffatta tutela, e che é questo il banco di prova per misurare la congruità di ogni eventuale riforma e la sua conformità a Costituzione.
In tale prospettiva lascia alquanto perplessi la recente proposta di riforma costitu-zionale del titolo quarto. Al riguardo mi limito a rilevare come, alla stregua di essa, vari temi su cui oggi la Costituzione detta una compiuta ed esaustiva disciplina sarebbero inve-ce assoggettati a regole demandate a future leggi ordinarie, destinate verosimilmente a mutare a ogni cambio di maggioranza parlamentare (così, ad esempio, l’obbligo del pubbli-co ministero di esercitare dell’azione penale dovrebbe essere adempiuto secondo i criteri stabiliti dalla legge; e l’autorità giudiziaria disporrebbe della polizia giudiziaria non più di-rettamente, ma secondo le modalità stabilite dalla legge).
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Mi avvio alla chiusura enunciando una plateale banalità, cioé che la Corte di cassa-zione costituisce un problema nel problema. L’ottavo comma dell’art. 111 – stabilendo che contro le sentenze é sempre ammesso ricorso in Cassazione per violazione di legge – in-veste specificamente la Corte del potere di nomofilachia che del resto, e con ogni evidenza, costituisce puntuale applicazione del principio supremo di eguaglianza di cui all’art. 3. Ma a questa solenne proclamazione corrisponde oggi un assetto del giudizio di legittimità mol-to insoddisfacente, specie in materia civile, onde é diffuso il convincimento dell’urgenza di sapienti interventi riformatori.
Mi limito a formulare qualche domanda provocatoria.
Ci si potrebbe chiedere quali conseguenze sia consentito trarre dalla constatazione che, mentre il ricorso in Cassazione per violazione di legge é dichiarato dalla Costituzione sempre ammesso, quello relativo ai vizi della motivazione della sentenza impugnata é in-vece lasciato alle scelte del legislatore ordinario. E forse – considerando il prezzo che con-cretamente si paga per garantire nei confronti di tutte le sentenze il ricorso per cassazione previsto dal n. 5 dell’art. 360 cod. proc. civ. – non escluderei che al riguardo  potrebbero forse meglio soccorrere apposite corti regionali, con probabili positive ricadute in termini di ragionevole durata dei giudizi di cassazione.
Non essendo nato ieri so bene di essermi incamminato su un terreno largamente minato. E, correndo consapevolmente il rischio di saltare in aria, mi chiedo se non sarebbe il caso di intraprendere uno studio di diritto comparato, per accertare se esista nell’ambito dell’Unione Europea qualche ordinamento che – nel rispetto della Carta di Nizza del 2000, che ha ormai lo stesso valore giuridico dei trattati (art. 6 del Trattato di Lisbona) – concepisca in modo diverso dal nostro il ruolo e i compiti di una Corte suprema degna dell’aggettivo.
Credo anche che una diversa strutturazione della Cassazione – con le correlative modifiche dei criteri per l’assegnazione dei magistrati – potrebbe essere una riforma com-presa e condivisa non solo dagli addetti ai lavori ma al più vasto mondo dei soggetti che si rivolgono alla giustizia per ottenere, presto e bene, la tutela dei propri diritti.
Il discorso sulle riforme da temere – e su quelle da auspicare – potrebbe continuare con riferimento al nono comma dell’art. 111, che nei confronti delle sentenze del Consiglio di Stato e della Corte dei conti limita il ricorso per cassazione ai soli motivi inerenti alla giurisdizione. In tal modo l’area del sindacato di legittimità é drasticamente ridotta, e vie-ne a mancare una sede istituzionale competente a risolvere gli eventuali contrasti di giuri-sprudenza che nascessero dalla discordante interpretazione della stessa legge da parte di giudici appartenenti a ordini giurisdizionali diversi, ipotesi non peregrina in un contesto in cui aumentano le ipotesi di giurisdizione esclusiva e comunque al giudice amministrativo é ormai devoluta la tutela risarcitoria degli interessi legittimi. L’estensione del ricorso in cas-sazione per violazione di legge a tutte le sentenze, quali che siano i litiganti, renderebbe fi-nalmente uguale per tutti anche la legge applicata da giurisdizioni diverse.
Come qualche amico forse sa, si tratta di una mia antica opinione. É vero che finora é rimasta mera vox clamantis in deserto, considerati i radi (pur se gratificanti) consensi. Ma l’occasione era troppo ghiotta per tacerne.
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Concludo. In una società ideale le discussioni e i conflitti, anche vivaci, fra i sosteni-tori di diverse soluzioni dei problemi, e quindi anche fra la maggioranza e le minoranze e-spresse da risultati elettorali, dovrebbero condurre a decisioni capaci – secondo le parole di Martin Buber – di ricomprendere in ciò che é stato scelto anche “l’inesauribile sofferen-za di ciò che non è stato scelto”, di far entrare cioè nella soddisfazione per la vittoria conse-guita anche il disagio per l’oggettivo sacrificio di un modo diverso di vedere le cose.
Nei tempi in cui avviene che alla Costituzione, alla Carta di tutti, si propongano mo-difiche suscettibili di apparire funzionali a interessi di parte, un discorso del genere sem-bra rimandare a un visionario racconto di fantascienza.
Il giorno in cui sarà invece divenuto pensiero condiviso, converrà organizzare un apposito e festoso convegno. Se ci sarò ancora, vorrei essere invitato.

 


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