"La giustizia tra esercizio quotidiano e globalismo giuridico" è stata oggetto del
Seminario tenutosi all’Università La Sapienza, Cattedra di Diritto Costituzionale comparato, in Roma, 13 giugno 2002.
Questo l'intervento di Gianni Melillo, Sostituto Nazionale Antimafia Una riflessione sulle ricadute dei processi di globalizzazione sull’amministrazione della giustizia e sulla stessa idea di giurisdizione non può non prendere le mosse dall’esigenza metodologica di ricordare che quei processi producono una più generale modificazione delle forme dell’agire politico organizzate attorno alla tradizionale nozione di Stato.
In particolare, la debolezza delle antiche aspirazioni dei singoli Stati alla pressoché esaustiva regolazione dei modelli sociali si rivela su molteplici piani di analisi:
- le politiche economiche, dal momento che i flussi finanziari transnazionali legati alle operazioni di commercio e di investimento internazionale si svolgono su scale, con volumi, e secondo modalità tali da mettere a nudo l’insufficienza delle politiche di intervento e controllo dei governi nazionali;
- la comunicazione: essendo ormai chiaro che la trasmissione delle informazioni (culturali, scientifiche, politiche) che avviene su base elettronica o satellitare all’interno del villaggio globale (e, dunque, il complesso delle relazioni sociali, oltre che dei traffici economici) sfuggono decisamente alle potestà di ordinazione e controllo degli ordinamenti statuali; nessuno stato, in particolare, è da solo in grado di imporre regole nel cyber spazio che garantiscano la compatibilità con l’ordine pubblico interno dell’uso di tecnologie le applicazioni delle quali spaziano oltre i confini nazionali;
- la stessa sicurezza interna, la garanzia preventiva della quale ha pure contrassegnato la formazione degli ordinamenti statuali conosciuti: come dimostra il trasfigurare sempre più micidiale e globale del fenomeno del terrorismo generato da tensioni politiche ed economico-sociali che si producono in ambiti transnazionali, ma, in generale, la dilatazione oltre i confini nazionali di strutture e dinamiche criminali in grado di minacciare la stessa stabilità delle istituzioni statuali di intere regioni, oltre che la trasparenza e la legalità dei mercati finanziari globali.
Il progressivo ridimensionamento del ruolo e delle attribuzioni dello Stato nazione si riflette, naturalmente, innanzitutto sui processi di costruzione normativa.
Il tema, in generale, sarà oggetto di un’altra relazione, ma alcune osservazioni, del tutto secondarie, riguardano direttamente la dimensione della giurisdizione, poiché la rottura del tradizionale legame privilegiato fra diritto e Stato ha rilevanti ricadute sulle forme della giurisdizione ed anzi sulla stessa possibilità di esercizio della medesima.
Da tempo si annota come la rottura della tradizionale regola di inscindibilità della relazione tra Stato e diritto finisca per dare vita ad un tumultuoso proliferare di ordinamenti giuridici extrastatuali retti da principi e valori diversi: un diritto comune della globalizzazione, per secondari versi simile all’esperienza giuridica medievale, che ricorre a meccanismi di composizione dei conflitti di tipo non giurisdizionale, che fa a meno della giurisdizione statuale, che anzi mal ne sopporta le occasionali interferenze, che privilegia la logica della autonoma negoziazione delle sorti dei conflitti interni.
È l’antica lex mercatoria, l’ordine giuridico creato direttamente dal mercato nel quale è destinato ad applicarsi, che, apparso nel mondo medievale prima della nascita dello Stato moderno, oggi si ripropone nel mercato globalizzato, con la medesima pretesa a dettare norme sottratte alla giurisdizione dello Stato nazione.
Mentre, anzi, nella politica si tende ad avvicinare la sfera delle decisioni alla società in cui esse dovranno applicarsi (e così si affermano istanze di federalismo e sussidiarietà), nell’economia le decisioni tendono a profilarsi come il prodotto di ambienti chiusi alla percezione ed al controllo esterno.
È stato opportunamente sottolineato (Strange) come nel mondo sei compagnie di revisione contabile detengano il controllo di oltre il 90% del mercato corrispondente alle grandi imprese. Non solo, ma queste compagnie affiancano alle tradizionali funzioni di controllo contabile funzioni di consulenza (in vista di obiettivi diversificati, di fusione, elusione fiscale, etc.) che tendono a divenirne anzi l’oggetto prevalente.
Un connubio di funzioni di controllo e consulenza, si è detto (Ferrarese), che qualunque manuale di diritto ispirato ai vecchi principi dello stato di diritto descriverebbe come un monstrum.
Naturalmente, gli effetti della globalizzazione sul sistema delle fonti tendono a presentarsi con forme e rilievo diversi a seconda che si osservi il fenomeno dal punto di vista europeo o nordamericano, poiché anzi in questa esperienza l’idea stessa di un monopolio del legislatore è sempre stata avversata ed il privato ha sempre avuto un ruolo attivo ed importante nella costruzione degli equilibri normativi.
Cosa altro è, infatti, il judge made-law se non un sistema nel quale il diritto è fissato dalle corti per dare risposta a conflitti di interessi economici che i privati non riescono a comporre in modo negoziale e solo in quanto i soggetti privati non riescano a comporre negozialmente il contrasto che li può condurre dinanzi al giudice?
La globalizzazione sembra dunque costringere al cambiamento assai più i sistemi di civil law che quelli di common law, naturalmente aperti al privato ed all’influenza condizionante delle sue scelte.
All’uno ed all’altro sistema è tuttavia comune la crisi del nesso fra diritto e territorio che tradizionalmente l’idea stessa di giurisdizione.
I modelli di organizzazione sociale imposti dalla dilatazione dei mercati e delle attività economiche e ai vertiginosi progressi della tecnica delle comunicazioni finiscono per svuotare i tradizionali criteri di riconoscimento dei reciproci limiti territoriali della sovranità degli Stati.
Dove è commesso un reato che si realizza nel cyber spazio? Qual è la giurisdizione chiamata ad accertarlo? Quale valore sarà accordato dagli altri Stati all’azione di accertamento e sanzione del singolo giudice nazionale? Sono alcune delle domande alle quali soltanto oggi si cerca di dare una risposta con gli strumenti del diritto internazionale convenzionale (Convenzione del Consiglio d’Europa sul cybercrime aperta alla firma a Budapest il 23.11.2001).
Se il denaro, le informazioni, le merci oltrepassano i confini come se questi non esistessero, non soltanto si palesa la debolezza delle pretese di controllo dell’ordinamento statuale, ma si produce una condizione di tendenziale conflittualità interstatuale, sedabile soltanto attraverso il ricorso alla negoziazione ed alla armonizzazione delle regole di esercizio delle rispettive giurisdizioni.
Ma le convenzioni non risolvono tutti i problemi connessi all’effettività di un intervento giurisdizionale i potenziali destinatari del quale sono disseminati nel globo.
Nella disciplina della relazioni negoziali che avvengono nel cyber spazio, quale effettività potrà avere in astratto la pretesa del giudice nazionale a regolare, dall’esclusivo punto di vista della legge nazionale, attività che si sottraggono per loro natura ad ogni legame di territorialità?
Spesso è il mercato che finisce per svolgere un ruolo fondamentale, di pressione sul singolo operatore o sulla generalità dei medesimi a dare esecuzione spontanea alla decisione del giudice.
Alcuni casi famosi lo rivelano chiaramente.
Si pensi alla sorte della sentenza del giudice francese che aveva ordinato alla società americana di gestione di uno dei più grandi motori di ricerca sulla Rete di rendere inaccessibile agli utenti francesi (recte, ai soggetti di qualunque nazionalità in collegamento dal territorio francese) un sito di propaganda nazista, la diffusione del quale è vietata dalla leggi di quel paese, ma tollerata negli Stati Uniti in omaggio alle più late accezioni del diritto di manifestazione del pensiero.
La difficoltà, anche tecnica, ritengo, di dare esecuzione all’ordine del giudice francese che imponeva, in attuazione di una rigorosa applicazione del principio di territorialità della legge nazionale, una sorta di parziale blocco d’accesso ad un sito aperto a collegamenti planetari è stata superata dalla decisione della società statunitense di procedere spontaneamente alla chiusura del sito incriminato, per evitare sia il formarsi di un pericoloso precedente giudiziario che gli effetti negativi di una lesione della propria immagine di mercato.
D’altra parte, la giurisdizione è sempre più spesso chiamata a rendere decisioni in grado di condizionare non soltanto i mercati interni ed il comportamento dei soggetti che operano nel territorio dello Stato di appartenenza, ma mercati globali e soggetti che operano su scala transnazionale, anche quando non direttamente partecipi al processo.
Pensiamo agli effetti “globali” della sentenza del giudice federale statunitense che ha posto fine alla contrapposizione fra Napster e le corporations che controllano il mercato della riproduzione musicale, sancendo l’illiceità delle pratiche di libero accesso via internet ai prodotti musicali astrattamente oggetto della protezione assicurata ai diritti d’autore.
Nei settori della comunicazione virtuale (ma la tendenza vale ormai in ogni mercato suscettivo dell’attenzione giurisdizionale di più Stati), il mercato e gli operatori giuridici che operano con funzioni di consulenza guardano sempre più non soltanto alla giurisprudenza interna, ma anche a quella che si forma in altri stati, riconoscendosi, in fatto, ai tribunali una capacità di influenza che, naturalmente, va al di là di ogni regola formale, ma si fonda sulla capacità di persuasione della decisione e, dunque, sulla sua sostanziale attitudine a guidare gli atteggiamenti dei giudici che negli altri stati sono alle prese con problemi analoghi.
Si pensi alla delicata questione della responsabilità del provider per la diffamazione realizzata negli spazi aperti alla comunicazione autogestita dai singoli siti ovvero comunque nei forum aperti ai navigatori della Rete.
Alle decisioni americane (caso Cubby, 1991) che esclusero quella responsabilità sulla base del rilievo dell’autonomia della condotta di diffusione delle informazioni lesive dell’altrui reputazione, ovvero (caso Prodigy, 1995) addirittura condannarono il provider che aveva preteso di sospendere la diffusione di informazioni considerandole diffamatorie (in quel caso, in danno di una società di intermediazione mobiliare) in forza di un inesistente potere di controllo del contenuto delle comunicazioni, sono seguite non dissimili decisioni di tribunali europei (tale è anche la decisione con la quale la Corte di Parigi ha condannato nel 1999 un provider per la diffusione abusiva di inedite immagini di nudo di una nota cantante rock, essendo tale sentenza fondata sul dato dell’assunzione implicita di responsabilità connesso alla preventiva autorizzazione alla diffusione di informazioni rilasciata in favore di anonimo).
Si assiste, in altri termini, alla silenziosa stratificazione di una giurisprudenza multinazionale, di fatto in grado di orientare il comportamento del mercato nei singoli ambiti nazionali.
Prima di continuare ad esaminare le linee essenziali di tendenza della giurisdizione connesse ai fenomeni di globalizzazione, vale forse la pena di considerare che gli effetti del più generale processo di scomposizione della tradizionale sfera di sovranità nazionale sul ruolo della giurisdizione non devono essere esaminati soltanto dall’angolo visuale dell’avanzamento del peso delle tendenze autodisciplinanti del mercato privato e delle sue forze dominanti.
Alla denunciata difficoltà di governo degli equilibri dei mercati lo Stato reagisce anche tentando di riorganizzare le sue attribuzioni; in pratica, revisionando i tradizionali criteri di ripartizione delle sue attribuzioni e disegnando nuovi assetti di disciplina.
È il caso della autorità indipendenti, le quali, se da un lato erodono sia le funzioni normative tipiche del potere legislativo, dal quale pure derivano, che quelle di indirizzo e governo delle politiche di settore altrimenti proprie del governo, dall’altro lato, si sostituiscono ai giudici nella regolazione del conflitto che nasce in molti dei più nevralgici e delicati mercati.
La sostituzione di ruoli è assolutamente manifesta, rivelata anche dalla analogia degli apparati formali. I poteri delle autorità indipendenti sono, infatti, esercitati nelle forme tipiche della giurisdizione, applicando gli strumenti e i principi tipici del lavoro giudiziario (la contestazione, l’istruttoria, la sanzione, l’obbligo di motivazione della decisione).
La materia ha un grado di problematicità non compatibile con la finalità precipua della mia relazione, ma certo andrebbe considerato il valore del probabile nesso esistente tra la proliferazione delle autorità indipendenti (che, come noto non è esclusiva del nostro sistema) e la crisi dell’idea che il giudice sia il detentore di un esclusivo monopolio nella composizione dei conflitti che nascono dall’applicazione delle regole del mercato.
È una crisi che ha radici complesse che attengono certo anche all’idea di governare la complessità degli interessi in gioco attraverso un approccio unitario ed organico ai problemi della normazione, delle politiche di indirizzo e dell’accertamento delle deviazioni dalle regole date che finisce per deresponsabilizzare la politica, alleggerendone il carico di contrapposizione polemica; ma, certo, quell’idea è alimentata anche dall’esigenza di sottrarre quei medesimi interessi alle più lente e sovente imprevedibili procedure che si svolgono dinanzi al giudice, ad un giudice visto con la diffidenza dovuta a chi appare come “jacks of all trades and master of none” (Landis), affidandosi in sua vece a strutture di natura diversa che accentrano competenze, saperi, risorse che appaiono renderle più affidabili.
Naturalmente, la sostituzione non è mai assoluta e totalmente indolore, come forse dimostra anche la persistente tendenza delle nostre giurisdizioni contabili ed amministrative ad assoggettare indirettamente al proprio controllo l’azione delle autorità indipendenti, accentuando l’incisività del proprio sindacato di legittimità.
Per tale via i giudici contabili ed amministrativi sfidano apertamente l’originaria sfiducia verso la giurisdizione che è alla base della istituzione delle autorità indipendenti, derivandone conflitti e tensioni dall’esito non prevedibile.
Il fenomeno rivela un obiettivo indebolimento del potere giudiziario nel rapporto con il mercato, anche se l’incidenza effettiva di ciò potrebbe considerarsi attinente più alle scelte nazionali di organizzazione autonoma delle forme di composizione neutrale dei conflitti che al problema della effettività della giurisdizione.
In generale, non credo che gli effetti della globalizzazione (nelle diverse dimensioni dell’economia, delle tecnologia, della comunicazione, dell’ecologia, dei conflitti transculturali, delle dinamiche illegali) sulla giurisdizione possano essere definiti secondo un unico schema ovvero ne sia possibile tentare una descrizione unitaria.
Anche considerando la tradizionale dimensione nazionale della giurisdizione, la crisi della sovranità statuale non sempre si traduce in una corrispondente compressione della sfera di intervento del giudice.
Su alcuni versanti il ruolo della giurisdizione si dilata.
Innanzitutto, si espande il ruolo delle giurisdizioni nazionali.
Dinanzi al giudice nazionale si trasferiscono, ad esempio, temi e conflitti che nascono direttamente dalla cittadinanza multiculturale e dalle istanze di riconoscimento delle diversità (Habermas-Taylor).
Si pensi alle corti francesi chiamate a giudicare dell’uso del chador nelle scuole pubbliche francesi, e, dunque, a pronunciarsi sull’attualità di una nozione di individualità astratta, indifferente alle mutevoli regole dell’ordine di appartenenza (religiosa, etnica, sociale) del singolo.
In generale, il processo, vale a dire il ricorso al giudice è divenuto, su scala mondiale, lo strumento di riconoscimento e tutela di diritti che lo Stato non riesce a regolamentare in sede politica o che preferisce non regolare con gli strumenti della politica.
Le tradizionali categorie del diritto civile e del diritto penale divengono le leve per rimuovere ostacoli non secondari sulla strada della tutela della persona umana esposta ai pericoli dell’azione incontrollata dei grandi gruppi economici.
Si pensi, ma l’indicazione è soltanto esemplificativa, alle azioni risarcitorie promosse negli Stati Uniti a tutela dei diritti dei consumatori vittime del tabagismo nei confronti delle multinazionali del tabacco, ovvero dai dipendenti di grandi multinazionali accusate di discriminazioni razziali (caso Coca-Cola), ovvero ancora dalle associazioni degli agricoltori coinvolti nell’uso di prodotti geneticamente modificati senza adeguate informazioni sui relativi rischi per la salute (caso Monsanto), ovvero ancora dei semplici cittadini coinvolti da veri e propri disastri ambientali (caso Exxon-Valdez).
Il giudice, anche per tale via, può incidere pesantemente sugli equilibri complessivi dei mercati transnazionali, con decisioni di grande impatto economico, per ciò solo in grado di orientare anche i comportamenti futuri delle imprese e dei consumatori al di là dei confini territoriali nei quali la sua decisione è assistita dalla garanzia della coercibilità.
Banalmente, si immagini l’effetto patrimoniale della sentenza con la quale, nell’ottobre 2000, un giudice federale di Oakland ha ordinato alla Ford, accogliendo il ricorso di un gruppo di acquirenti delusi, di ritirare oltre un milione e mezzo di veicoli venduti in California considerati affetti da visi costruttivi in grado di minarne la sicurezza.
I grandi temi della salute, dell’ambiente, della tutela del consumatore vengono così convogliati nell’alveo giudiziale e gli equilibri raggiunti sul piano giudiziario finiscono per orientare le scelte politiche.
Non è un fenomeno nuovo, se soltanto si pensa al ruolo della giustizia federale statunitense nelle battaglia per i diritti civili degli anni sessanta.
Né si tratta di elementi esclusivi dell’esperienza americana, come dimostra l’evoluzione delle sensibilità giurisprudenziali europee sui medesimi temi.
Quello che è certo è che il fantasma del governo dei giudici, evocato, sulla scia di un efficace titolo di Le Monde della metà dello scorso decennio, per commentare gli eclatanti effetti di molte iniziative giudiziarie in corso in tutta Europa, riguarda innanzitutto la giustizia civile, se è vero, come è vero, che l’espansione del contenzioso civile ha dovunque una crescita esponenziale, in special modo se valutata con riferimento, oltre che al loro volume, alla natura ed alla rilevanza degli affari trattati (per restare negli Stati Uniti, dalle decisioni della giustizia federale sulla necessità di smembrare l’impero Microsoft sino alla convalida di un giudice statale dell’elezione del Presidente).
Sono fin troppo evidenti i rischi di un’impropria enfatizzazione della giurisdizione. Innanzitutto, quello della conseguente sottrazione alla responsabilità della politica ed al controllo della discussione pubblica di temi così delicati che si realizza attraverso l’affidamento delle soluzioni dei problemi più delicati e complessi al giudice, “lasciando impropriamente immaginare che le sentenze dei giudici siano più eque ed imparziali delle leggi dei parlamenti” (Baratta).
Più interessante, forse, può essere notare che la comunicazione globale produce anche opinioni pubbliche più sensibili ed attente, anche su temi prima di dominio esclusivo degli specialisti (è il caso della bioetica) ovvero esposti a tensioni sconosciute in diretta dipendenza della natura dei processi di trasformazione della produzione (ed è il caso dei diritti economici e sociali), ciò che dà luogo a nuove consapevolezze ed istanze alle quali la politica fatica ad assicurare efficace e piena traduzione.
Su altro e più articolato versante, la spinta principale al rafforzamento del ruolo delle giurisdizioni è assicurata, come vedremo, dalla progressiva moltiplicazione degli sforzi di cooperazione internazionale e sovranazionale degli Stati chiamati a compensare le altrimenti inevitabili crisi di effettività delle proprie tradizionali attribuzioni sovrane dinanzi a fenomeni transnazionali.
Talvolta, anzi, l’iniziativa unilaterale degli Stati nella regolamentazione di relazioni transnazionali produce sui mercati globali effetti obiettivamente perversi che tocca poi alla cooperazione internazionale rimediare.
Un esempio può valere a dare concretezza a quanto appena detto.
Il fenomeno della corruzione riguarda in modo diretto anche ambiti economici di grande rilevanza.
La Convenzione OECD (Parigi, 17 dicembre 1997) sulla corruzione dei funzionari pubblici stranieri nel suo preambolo riconosce la corruzione come uno strumento ordinario del commercio internazionale.
L’esperienza concreta rivela che questo tipo di corruzione attiene, in particolare, agli appalti pubblici, alla cooperazione internazionale, ai processi di privatizzazione, alla concessione di autorizzazioni amministrative, al commercio di materie prime.
La mancanza di criminalizzazione della corruzione degli agenti pubblici stranieri ed internazionali a titolo di corruzione, tipica di molti stati, era una grave lacuna che condizionava il mercato internazionale.
Lo sforzo di moralizzazione degli ordinamenti economici fu avviato originariamente soltanto negli Stati Uniti.
Gli Stati Uniti, infatti, avevano approvato sin dal 1977 (Foreign corrupt practises Act, non casualmente dopo il famoso scandalo delle tangenti pagate dall’industria aeronautica Lockheed) una legge federale che puniva la corruzione di funzionari pubblici stranieri.
A quel tempo neanche i maggiori partners commerciali degli Stati Uniti erano in grado di adottare un simile approccio al problema.
Pesavano certo anche atteggiamenti di sospetto, poiché non pochi guardarono alla scelta unilaterale americana come frutto di un moralismo che nascondeva obiettivi di egemonia commerciale e politica. Prova ne è il fatto che nel 1979 fallirono definitivamente gli sforzi di giungere ad una convenzione delle Nazioni Unite sulla corruzione.
Si realizzò così una geometrie variabile delle regole di eticità dei comportamenti privati che finì per danneggiare le imprese americane, costrette a concorrere alle gare internazionali in condizioni, per così dire, di inferiorità rispetto a quelle di paesi che consideravano lecito il pagamento di “commissioni” in favore dei funzionari pubblici del paese nel quale si svolgeva la gara (e che magari consideravano questo tipo di costi anche deducibile, a diverso titolo, a fini fiscali).
In definitiva, l’esistenza di risposte differenziate dei singoli stati si trasformava in un fattore di concorrenza sleale e di alterazione della competizione sui mercati internazionali.
Ben si può comprendere allora la ragione anche economica delle eccezionali pressioni esercitate dagli Stati Uniti per giungere infine, venti anni dopo, appunto con la citata Convenzione OECD all’accettazione di regole comuni da parte di tutti gli Stati o, almeno, dei principali protagonisti sulla scena del commercio internazionale.
[[Assai meno facile appare giustificare l’opinione espressa da un ex direttore della Central Intelligence Agency, il quale, secondo quanto riferito dalla stampa internazionale, intervistato a proposito di un uso a fini di spionaggio industriale del sistema di sorveglianza elettronica ormai noto come Echelon, avrebbe giustificato la relativa possibilità alla luce della necessità di proteggere le imprese americane dalla concorrenza sleale delle imprese che, secondo le leggi degli stati di appartenenza, potevano tranquillamente ricorrere alla capacità persuasiva del denaro.]]
Il risultato pratico è rappresentato da significativi passi avanti sulla strada della armonizzazione delle legislazioni nazionali (l’Italia, ad es. ha accettato di introdurre forme di responsabilità diretta delle persone giuridiche), della eticità delle relazioni commerciali e dei rapporti sociali, della legalità complessiva dei mercati internazionali.
La vigilanza sul comportamento dei mercati è garantita dalla giurisdizione, innanzitutto penale, dei singoli Stati, ciò che contraddice obiettivamente l’idea che ad una modificazione delle regole dei mercati transnazionali (ciò che è tipico, invero, della loro espansione) segua sempre e comunque un’erosione delle prerogative della sovranità dei singoli Stati, essendo evidente che ciò non avviene quando le giurisdizioni nazionali si caricano del peso dell’aspettativa internazionale all’abolizione delle geometrie variabili che sovente connotano la disciplina dell’agire delle imprese nei diversi mercati nazionali e che espongono i mercati a pericoli che ne minano l’equilibrio.
Ragioni analoghe spingono all’espansione del ruolo della giurisdizione nella promozione dei diritti fondamentali.
Si assiste anzi ad una visibile spinta alla globalizzazione della giustizia e delle istituzioni giudiziarie delle organizzazioni internazionali, chiamate a sostenere le aspirazioni al tendenziale universalismo dei diritti umani e alla loro protezione su scala globale.
In questa prospettiva, la sovranità statale è considerata inadeguata a fungere da leva per la salvaguardia di beni superiori come la pace, la tutela dei popoli dal rischio tremendo del genocidio, dei crimini di guerra, della violenza etnica, ciò che spiega la consistenza delle correnti del moderno pensiero giuridico e filosofico (Bobbio, Kung, Dahrendorf, Habermas) che invocano la creazione di una giurisdizione internazionale obbligatoria e di una vera e propria polizia internazionale, quale unica alternativa alla guerra e al disordine internazionale.
Le espressioni concrete di una più realistica tendenza (poiché largamente condizionata dall’apporto collaborativi degli Stati) alla protezione su base universale dei diritti individuali e dei popoli coincidono (al di là dell’esperienza originaria di Norimberga) con l’istituzione dei Tribunali internazionali per i crimini commessi nella ex Yugoslavia e per il Ruanda, ma soprattutto, per la sua portata universale, con l’approvazione dello Statuto della Corte penale internazionale destinata a giudicare dei crimini di guerra e delitti contro l’umanità ovunque commessi (Roma, 17 luglio 1998).
Un evento giudicato da molti di particolare importanza storica, anche per la fissazione che ne deriva di alcuni principi giuridici essenziali (in tema di processo, esecuzione della pena, ordinamento del giudice e del pubblico ministero), di fatto costituenti il primo nucleo di un diritto penale e processuale penale comune a Stati dalle tradizioni più diverse.
In attesa della Corte penale internazionale, alcuni Stati hanno assecondato il bisogno largamente avvertito nelle opinioni pubbliche nazionali di assicurare su scala universale una tutela dell’individuo dagli abusi dei regimi.
Accanto alle iniziative giudiziarie (spagnole, italiane, francesi) che ancorano la pretesa punitiva di abusi e violenze commesse dai capi di regimi totalitari al tradizionale volano della cittadinanza delle vittime ed agli altrettanto tradizionali strumenti della richiesta di estradizione, vi è persino il caso del Belgio che, con leggi del 1997 e del 1999, ha affidato al proprio giudice la punizione del genocidio e dei crimini contro l’umanità, senza limite territoriale alcuno, da chiunque e contro chiunque commessi.
Il tentativo di attribuire al giudice nazionale una competenza universale inconciliabile con un realistico approccio alla gravità dei fenomeno ed all’esigenza di rigorosa responsabilizzazione politica dei Governi e degli Stati si è bruscamente arenato allorquando dalla inchiesta sui crimini dell’ex presidente del Ciad si è passati alle accuse rivolte al primo ministro israeliano Sharon per i gravi fatti avvenuti nei campi profughi di Sabra e Chatila durante l’invasione del Libano del 1982.
Appena un paio di mesi fa, infatti, una provvida decisione della Corte d’Appello di Bruxelles ha interpretato il mandato legislativo in senso assai restrittivo, subordinando il riconoscimento della giurisdizione alla condizione che la persona accusata si trovi nel territorio belga, facendo così venire meno la procedibilità per tutti gli altri casi.
L’effettivo avvio dell’esperienza della Corte penale internazionale, oltre che l’effettività della sua azione futura sono largamente minati dal rifiuto statunitense di accettare una sede giurisdizionale internazionale per la punizione dei crimini di guerra che finirebbe inevitabilmente per condizionare le scelte politiche e militari di quel paese (oltre che dal timore di non pochi regimi totalitari ed illiberali, la Repubblica popolare di Cina, ad es., di accettare scomodi sindacati sulle politiche interne di repressione del dissenso e delle spinte secessionistiche, dal momento che, diversamente da quanto prevede lo Statuto del Tribunale per l’ex-Yugoslavia, la punibilità dei crimini contro l’umanità non è collegata alla necessaria esistenza di un conflitto armato).
Ma la Corte penale internazionale rappresenta in sé la più visibile ed eclatante manifestazione progettuale di una globalizzazione della giustizia che si proponga di sostituire sulla scena internazionale, come è stato forse enfaticamente sottolineato, la sovranità della legge alla sovranità della forza.
Opportunamente, lo Statuto prevede che la garanzia internazionale operi soltanto in caso di inerzia della giurisdizione nazionale, e questa regola di prevalenza è un’opportuna manifestazione di realismo programmatico, poiché proprio l’esperienza dei tribunali delle Nazioni Unite per l’ex-Yugoslavia ed il Ruanda dimostrano che uno spostamento integrale del peso che i sistemi nazionali non possono o non vogliono sostenere sulle istanze giudiziarie internazionali non corrisponde ad aspettative realistiche, poiché finisce per schiacciare le sorti dei tribunali internazionali sotto il macigno della insostenibilità dei costi o di una paradossale violazione dei diritti fondamentali degli accusati (Pocar).
Ciò che vale in ogni caso sottolineare è il dato comune rappresentato dal contributo dato dagli organismi giudiziari internazionali alle modificazioni degli scenari tradizionali.
Dinanzi ai tribunali internazionali, la protezione dei diritti umani non è governata dai comportamenti degli Stati, ma è affidata anche all’azione anche degli individui e di nuovi soggetti che non hanno identità pubblica (si pensi all’universo delle organizzazioni non governative).
Si moltiplicano, insomma, i canali di accesso e i possibili oggetti della litigation dinanzi agli organismi giudiziari internazionali.
Conseguentemente, le decisioni di questi ultimi non hanno più gli Stati nazione per destinatari esclusivi, ma producono effetti direttamente per gli individui.
Gli Stati non sono più gli esclusivi gate-keepers del diritto internazionale e ciò contribuisce a spiegare il mutato scenario dei soggetti ufficiali del diritto internazionale e la complessiva difficoltà a concepire quest’ultimo come un corpus di norme definite ed attive soltanto nell’ambito del rapporto fra Stati.
L’esempio della Corte europea di Strasburgo e della progressiva effettività conquistata attraverso la via giurisdizionale dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali vale a dare concreta dimostrazione di quanto appena ricordato sia pure in un ambito transnazionale più limitato e connotato da relativa omogeneità degli ordinamenti statuali che astrattamente si riconoscono nei valori e nei principi giuridici affidati alla garanzia di quelle istituzioni transnazionali.
La globalizzazione riguarda, naturalmente, non soltanto i mercati legali e le loro dinamiche, ma anche quelli illeciti, governati da strutture criminali in grado di controllare, anche attraverso complessi meccanismi di interazione ed integrazione reciproche, traffici transnazionali che riducono persino la persona a merce, strumento di profitto, oggetto di manipolazione e sfruttamento a fini di profitto.
In intere aree del pianeta, dai Balcani all’Asia centrale o dell’estremo sud-est, da non pochi paesi latino-americani ad intere regioni dell’Africa, dalla Russia al Caucaso, la stessa stabilità politica è minacciata dall’azione dei gruppi criminali attivi nella gestione dei mercati illeciti, nell’infiltrazione dell’economia legale, nella corrosione delle istituzioni dei singoli stati attraverso l’arma della corruzione, nell’alimentazione di conflitti locali e di logiche di violenza in grado di travolgere il destino di interi popoli e dell’intera comunità internazionale.
Quando, nell’ottobre 2000, sotto l’egida delle Nazioni Unite e dell’Osce, un relativamente piccolo gruppo di specialisti discusse delle connessioni controllo dei mercati mondiali dell’oppio e dell’eroina e terrorismo e dei rischi per la stabilità politica dell’Asia Centrale, e dell’intero globo, si delinearono scenari che la comunità internazionale cominciava appena ad individuare, che gli Stati direttamente interessati negavano o minimizzavano, che l’Occidente guardava con relativa sufficienza, cullato dall’illusione della lontananza, anche geografica, del pericolo, ovvero considerava materia da affidare alle strutture di law enforcement e ai giudici dei singoli Stati, tutt’al più accentuando, anche e soprattutto sul piano della rappresentazione simbolica, gli sforzi politici finalizzati alla promozione della cooperazione giudiziaria e di polizia (ne è dimostrazione la Convenzione delle Nazioni Unite sul crimine organizzato transnazionale aperta alla firma a Palermo il 12 dicembre 2000).
Naturalmente, la cooperazione fra gli Stati a fini di giustizia è un percorso obbligato quando si è in presenza di reati che si commettono nel territorio di più stati, o gli effetti dei quali ricadono su stati diversi da quelli nei quali si pongono in essere le condotte illecite, o il profitto dei quali sia trasferito in stati diversi da quelli degli autori.
Altrettanto naturalmente, il diritto internazionale e gli sforzi di cooperazione che esso promuove e disciplina si arenano dinanzi alla debolezza di organizzazioni statuali corrose dalla corruzione (sino alla immedesimazione delle elites politiche con le organizzazioni prettamente criminali che è carattere tipizzante i cosiddetti Stati-mafia, oltre che nelle aree geografiche ridotte a no man’s land ovvero ad enormi porti franchi (Nigeria).
Ancor più naturalmente, tuttavia, conviene soffermarsi su ciò che è comunque possibile fare, anziché nella contemplazione dei limiti e degli ostacoli che soltanto l’azione politica della comunità internazionale e degli Stati possono rimuovere, di fatto fungendo la cooperazione come contrappeso e rimedio alla globalizzazione delle strutture e delle dinamiche criminali.
Soprattutto in questo settore, la cooperazione deve essere immaginata non per quello che non potrà mai essere (un sistema compiuto, valido allo stesso modo per tutti gli stati), ma per quello che è e che può continuare ad essere (un sistema di cerchi concentrici l’intensità del quale è maggiore all’interno di quelli più piccoli, progressivamente capaci però di influenzare il movimento di quelli più lontano dal centro).
L’esperienza lo dimostra.
Le soluzioni elaborate all’interno di sistemi relativamente omogenei hanno una tendenziale idoneità non soltanto ad essere accettate all’interno del sistema, ma anche di divenire un modello per gli altri stati.
La convenzione sul riciclaggio del 1990 lo dimostra. Approvata all’interno del Consiglio d’Europa ha ricevuto nel tempo l’adesione di numerosi altri stati ed è il modello di riferimento consueto di tanti accordi bilaterali.
Allo stesso modo, le regole di condotta elaborate dal FATF sono state progressivamente accettate dalle istituzioni bancarie e finanziarie internazionali come parametro di valutazione dell’affidabilità di un sistema economico e dell’adeguatezza dei sistemi giudiziari chiamati a sostenere il peso della cooperazione.
Questi esempi dimostrano che è possibile creare standards legali comuni, partendo da soluzioni in grado di essere accettate da tutti ed elevando progressivamente il livello di rigore e riducendo il numero e la rilevanza delle giurisdizioni non cooperative.
La stessa idea dei cerchi concentrici va applicata nella valutazione delle attuali evoluzioni delle regole della cooperazione giudiziaria.
All’interno dell’Unione Europea, gli Stati membri sono profondamente impegnati in un processo di cooperazione giudiziaria e di polizia e di armonizzazione legale che intende avere come ambizioso obiettivo la costruzione di quello spazio comune di giustizia e di sicurezza del quale parlò la prima volta il presidente francese Valery Giscard d’Estaing soltanto nel 1977.
Volendo essere ottimisti, l’obiettivo finale è meno lontano e irrealizzabile di quanto possa sembrare a prima vista.
I segni di ciò sono tutto sommato abbastanza visibili.
Con il Trattato di Amsterdam, la creazione di uno spazio comune di libertà, sicurezza e giustizia è divenuta un obiettivo primario dell’Unione; nella nuova configurazione il terzo pilastro comprende soltanto la cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale, fissandosi l’obiettivo del riavvicinamento delle normative nazionali.
La materia della cooperazione nel settore civile, come sapete, è stata trasferita nel primo pilastro, derivandone un’accelerazione dei processi di integrazione delle giurisdizioni assolutamente straordinaria, da ultimo espresso del regolamento (44/2001) con il quale, con operatività fissata a far tempo dallo scorso 1 marzo, è stata introdotta una disciplina generale della competenza giurisdizionale, del riconoscimento e dell’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale.
La scelta di intervenire sulle norme di diritto internazionale privato applicabili negli Stati membri, al fine specifico di assicurare “la libera circolazione delle sentenze” e, dunque di consolidare il mercato interno dell’UE, estendendo sull’intero territorio dell’Unione la garanzia dell’effettiva possibilità di attuazione della garanzia giurisdizionale.
Se possiamo tentare un accostamento problematico sino all’azzardo, la cornice sopranazionale ha consentito di individuare solide basi normative ed affidabili meccanismi di realizzazione processuale a quel bisogno di uniformità di regole del mercato e di prevedibilità dei comportamenti delle imprese che nel mercato globale si realizza di regola attraverso l’adesione spontanea e non coercibile alle regole generate dallo stesso mercato ovvero a quelle affermate da singole organizzazioni statuali o nell’ambito di organismi tendenzialmente globali ma privi di piena e generale capacità di imposizione cogente.
Non solo. Per la via indicata, sono anche fissate le coordinate positive per la creazione di una giurisprudenza multinazionale che, nel confronto reciproco delle interpretazioni, finirà per produrre una spinta ulteriore alla armonizzazione dei sistemi giuridici nazionali.
In materia penale, tradizionale oggetto delle più gelose prerogative di esclusività nazionale degli Stati, i progressi sono assai più lenti e difficili.
Al di là delle declamazioni di principio, sembra pesare meno in questo campo la consapevolezza che condizioni di legalità ed efficienza repressiva diversificate all’interno dell’Unione sono, da un lato, fattore di turbamento della concorrenza (l’impresa tenuta a standard di trasparenza ed eticità dei comportamenti è ovviamente chiamata a sostenere costi dai quali sono esenti le imprese sulle quali pesano obblighi minori) e, dall’altro lato, fattore di inquinamento dei mercati nazionali e di minaccia per la sicurezza collettiva (i gruppi criminali, che agiscono con la medesima logica delle imprese, tenderanno a privilegiare nei loro insediamenti gli ambiti nazionali ove le aspettative di profitto ed impunità sono maggiori; naturalmente, altrettanto farà l’impresa legale che voglia approfittare di condizioni di minore protezione dell’affidamento dei terzi).
Tanto premesso, i passi avanti, compiuti nel giro di pochi anni, sono a ben vedere comunque imponenti, soprattutto se paragonati alla lentezza delle evoluzioni dei decenni precedenti.
Con l’avallo politico ricevuto dal Consiglio europeo di Amsterdam prima e da quelli di Vienna e Tampere dopo, nel settore della prevenzione e della repressione della criminalità organizzata l’UE si è dotata di veri e propri piani strategici, l’attuazione dei quali sta avvenendo in tempi relativamente brevi, come dimostrano la nascita di Europol e Eurojust (allo stato strutture embrionali e di assai limitata effettività, al di là della soddisfazione del bisogno di rappresentazione simbolica della pretesa incisività di un agire concorde degli Stati dell’Unione nella repressione dei più gravi fenomeni criminali), la creazione della rete giudiziaria europea (vale a dire di una rete di punti di contatto finalizzata allo scambio anche informale delle informazioni utili a semplificare le procedure di assistenza giudiziaria), l’attivazione di meccanismi di valutazione reciproca dell’adeguatezza dei sistemi nazionali a fronteggiare le esigenze di cooperazione, persino gli sforzi di armonizzazione del diritto sostanziale e processuale (si pensi alle convenzioni in materia di tutela degli interessi finanziari dell’Unione, di corruzione dei funzionari comunitari, di sanzioni nei confronti delle persone giuridiche, di procedure di assistenza giudiziaria, ovvero alle azioni comuni in tema di corruzione, partecipazione a gruppi criminali, traffico di persone, etc.).
All’interno di questo sistema, peraltro, si avverte sempre più la pesantezza di forme un po’ ottocentesche di cooperazione: la rogatoria, l’estradizione sono in quanto tali riconoscimenti formali di una sovranità degli stati che ha saputo indietreggiare sulla tradizionale prerogativa di battere moneta, ma che non intende fare passi indietro nelle tradizionali sfere di sovranità coincidenti con la giustizia e la sicurezza.
È certo nei fatti sempre più ardua da accettare l’idea che il passaggio della frontiera fra Ventimiglia e Mentone che separa Italia e Francia debba comportare problemi di natura non dissimile da quelli che si pongono nei rapporti non dico con la Mongolia o con Myanmar, ma anche con la Moldavia o con la Turchia, che sono Stati assai più lontani e diversi per tradizione ed intensità dei legami culturali.
L’obiettivo del futuro è quello dell’armonizzazione progressiva delle regole e del riconoscimento reciproco delle sentenze e dei provvedimenti giudiziari.
Le decisioni quadro in tema di esecuzione nel territorio europeo del mandato di cattura e degli ordini di congelamento delle cose che costituiscono prove o proventi di un reato ne costituiscono evidenti, sia pure quanto embrionali, dimostrazioni.
Sono temi che accenno soltanto, affidandone alla discussione l’eventuale approfondimento, non senza sottolineare che il rilievo costituzionale del processo di integrazione degli apparti giudiziari ha un rilievo straordinario se si prova ad abbandonare l’idea del “costituzionalismo in solo paese” che purtroppo ancora condiziona la politica e, per quanto più direttamente mi riguarda, i giudici.
Le sollecitazioni a farlo sono molteplici e sovente non facilmente percepibili.
La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea ne è la dimostrazione.
Gli articoli del Capo Vi dedicato alla Giustizia sono stati quasi oscurati dal dibattito intorno all’ampiezza del riconoscimento dei diritti: di dignità, di libertà, di uguaglianza, solidarietà, cittadinanza.
Le formule impiegate nel capo della Giustizia sono sembrate, e in parte lo sono, meramente ricognitive di principi già enunciati nelle più importanti convenzioni internazionali e nelle costituzioni nazionali ed anzi l’impressione che la genericità delle medesime non rischi di determinare un arretramento del fronte della tutela giuridica è fugata soltanto dalla lettura immediatamente successiva degli articoli 52 e 53, che garantiscono che nessuna riduzione dei livelli di protezione già accordati dai trattati comunitari, dalle convenzioni internazionali e dalle stesse costituzioni nazionali è possibile in forza di interpretazioni della Carta.
In realtà, nella Carta c’è molto di più, anche in tema di giustizia, soprattutto di giustizia penale.
Ad esempio, il principio del ne bis in idem trova un riconoscimento assolutamente importante, poiché riferito alle sentenze non del singolo stato, ma a quelle rese “nell’Unione”, ciò che è coerente con il progetto di costruzione di uno spazio giudiziario comune europeo fondato sulla mutua fiducia e sul conseguente riconoscimento reciproco delle altri decisioni giudiziarie.
Ancora, l’introduzione del principio di legalità dei reati e delle pene nella Carta, pure se apparentemente limitato alla riproduzione della formula dell’art. 7 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, potrebbe aprire la strada all’aperto riconoscimento di competenze penali delle Comunità, con effetti dirompenti sui tradizionali assetti dei rapporti giurisdizionali in materia penale.
Si è, infatti, sottolineato (D’Amico) che, se la Carta dei diritti nasce con l’intento di valere nei confronti delle istituzioni comunitarie, l’introduzione di un principio di legalità in materia penale vincolante per le istituzioni comunitarie altro non può significare che l’apertura verso l’attribuzione di future competenze penali direttamente in capo all’Unione. L’aver definito quel principio usando l’espressione “in base al diritto” anziché alle “leggi” sembrerebbe confermare anche sul piano testuale l’idea che non è soltanto lo Stato nazione il soggetto tenuto al rispetto di quella riserva, poiché unico titolare della giurisdizione penale.
Sono problematiche ancora in attesa di definizione e particolarmente complesse (si pensi alla difficoltà di immaginare i rischi per il principio di legalità penale connessi alla difficoltà di dare la concreta attuazione al corollario della riserva del potere punitivo penale in un sistema che vede il Parlamento europeo mero partecipe del processo normativo e non già titolare del potere legislativo.
Insomma, l’apertura all’Unione sul piano dell’esigenza delle predeterminazione dell’illecito e della sanzione rischierebbe di aprire il varco ad anacronistiche retrocessioni della legalità del sistema penale sul terreno delle fonti.
Allo stato, il cosiddetto deficit democratico delle istituzioni comunitarie è ancora un ostacolo insormontabile all’idea del trasferimento delle competenze penali dagli Stati all’Unione. Dal punto di vista dei sistemi, come il nostro, nei quali il principio di riserva di legalità è costituzionalizzato, un trasferimento, sia pure a condizioni di reciprocità, delle competenze penali nazionali verso l’Unione esigerebbe una preventiva quanto difficilmente immaginabile modifica dell’impianto costituzionale.
Ciò non significa che già oggi l’assetto degli interessi e delle istituzioni comunitarie non abbia determinato effetti profondi per il ruolo delle giurisdizioni penali nazionali.
Modificazioni assai rilevanti delle aree di intervento delle giurisdizioni nazionali sono rilevabili in corrispondenza:
- della progressiva amministrativizzazione di numerosi ed importanti settori, avendo le Comunità un potere punitivo di carattere amministrativo ormai assai ampio (il regolamento n. 2988/95 detta ormai una disciplina generale delle sanzioni amministrative e del relativo procedimento applicativo), che tende ad assorbire parte non secondaria delle istanze di prevenzione e repressione tradizionalmente affidate al giudice penale;
- della progressiva espansione del principio di cd. assimilazione che responsabilizza i sistemi nazionali ad assicurare, anche penalmente, la tutela degli interessi comunitari (il principio trovò originaria enunciazione nella sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità europee relativa al caso cd. del mais greco (1989): la corte stabilì che gli stati membri, qualora manchino specifiche sanzioni comunitarie, devono perseguire le violazioni del diritto comunitario “in termini analoghi a quelli previsti per le violazioni del diritto interno simili per natura ed importanza; in successive pronunce, la medesima corte affermò espressamente che l’art. 5 – oggi il 10 - del Trattato delle Comunità in sé obbliga gli Stati membri “ad adottare tutte le misure atte a garantire, se necessario anche penalmente, la portata e l’efficacia del diritto comunitario” giungendo a riconoscersi il potere di sindacare la congruità delle scelte discrezionali dei legislatori nazionali sul tipo di sanzione applicabile, emergendo un obbligo di previsione di sanzioni efficaci, realmente dissuasive). Quel principio, di creazione giurisprudenziale fu poi accolto dai Trattai comunitari (Maastricht prima, Amsterdam poi).
Per l’una e per l’altra delle vie evolutive appena specificate, la giurisdizione penale nazionale incontra i limiti derivanti dall’esistenza dell’organizzazione sopranazionale: ma con il principio di assimilazione, con evidenza, viene alterata la tradizionale concezione della giurisdizione penale come sistema servente della volontà esclusiva del legislatore nazionale, aprendosi alla tutela di interessi e principi definiti in ambito sopranazionale, ma, soprattutto, ciò che più conta nell’ottica della rottura dei tradizionali confini nazionali dell’intervento penale, all’obiettivo di una tutela dei beni giuridici di rilevanza comunitaria che sia tendenzialmente uniforme ed omogenea su tutto il territorio della Comunità.
In Italia, il principio di assimilazione ha prodotto rilevanti effetti legislativi, modificandosi la portata della legge doganale, la disciplina della truffa in danno di enti pubblici, della malversazione, della corruzione, del peculato.
Altro è il discorso dell’efficacia dello strumento dell’assimilazione, che resta assai dubbia, al di là dell’assenza di alternative politicamente plausibili.
Quell’obiettivo di uniforme ed omogenea tutela degli interessi dell’Unione rischia di infrangersi sugli scogli delle differenze delle risposte normative nazionali o dell’effettività della loro applicazione.
L’obiettivo non può che essere quello dell’armonizzazione dei sistemi nazionali, unico serio baluardo dal rischio che i gruppi criminali transnazionali possano scegliere il territorio di azione in ragione della maggiore o minore efficacia della legislazione dei singoli Stati.
Si apre a questo punto la questione cruciale dell’adeguatezza degli strumenti oggi disponibili per procedere sulla strada dell’armonizzazione nel campo penale.
Difficile pensare che possa tale obiettivo realizzarsi attraverso la procedura dell’art. 28° Tce che, al comma 4, prevede che il Consiglio, deliberando secondo lo schema della co-decisione con il Parlamento europeo, possa adottare tutte le misure necessarie alla tutela degli interessi finanziari della Comunità.
La medesima norma esclude, infatti, che quelle misure possano riguardare l’applicazione del diritto penale nazionale o l’amministrazione della giustizia, con ciò obiettivamente rivelandosi che quella procedura non fu neanche pensate per risolvere il problema che abbiamo di fronte, al di là delle opzioni dottrinali più coraggiose che, valorizzando l’esigenza di garantire l’effettività della tutela degli interessi della Comunità che l’art. 280 pone comunque come obiettivo primario, sostengono che il limite dato dal riferimento al diritto penale e all’amministrazione delle giustizie nazionali altro non significa che i provvedimenti emessi dall’art. 280 del Trattato non possono avere efficacia diretta negli ordinamenti penali interni (con conseguente esclusione della possibilità di emanazione di regolamenti self-executing).
In astratto, assai più coerente e realistico è lo strumento della direttiva, con la quale l’ordinamento comunitario fissa ai singoli Stati membri degli obiettivi la realizzazione dei quali è vincolata, ma affidata, quanto a forme e modalità di realizzazione dei fini del ravvicinamento dei sistemi (e, anzi, alla stessa scelta dello strumento penale) alla discrezionalità politica degli Stati.
All’idoneità astratta dello strumento fa tuttavia riscontro una assai limitata utilizzazione pratica (di fatto, sinora si è ricorsi alla direttiva soltanto in materia di insider trading e riciclaggio), ciò concorre a dare la misura della distanza che va ancora percorsa perché una dimensione nuova della cooperazione internazionale e la stessa idea di Europa possano divenire risposte adeguate ai rischi della globalizzazione.
Seminario tenutosi all’Università La Sapienza, Cattedra di Diritto Costituzionale comparato, in Roma, 13 giugno 2002.
Questo l'intervento di Gianni Melillo, Sostituto Nazionale Antimafia Una riflessione sulle ricadute dei processi di globalizzazione sull’amministrazione della giustizia e sulla stessa idea di giurisdizione non può non prendere le mosse dall’esigenza metodologica di ricordare che quei processi producono una più generale modificazione delle forme dell’agire politico organizzate attorno alla tradizionale nozione di Stato.
In particolare, la debolezza delle antiche aspirazioni dei singoli Stati alla pressoché esaustiva regolazione dei modelli sociali si rivela su molteplici piani di analisi:
- le politiche economiche, dal momento che i flussi finanziari transnazionali legati alle operazioni di commercio e di investimento internazionale si svolgono su scale, con volumi, e secondo modalità tali da mettere a nudo l’insufficienza delle politiche di intervento e controllo dei governi nazionali;
- la comunicazione: essendo ormai chiaro che la trasmissione delle informazioni (culturali, scientifiche, politiche) che avviene su base elettronica o satellitare all’interno del villaggio globale (e, dunque, il complesso delle relazioni sociali, oltre che dei traffici economici) sfuggono decisamente alle potestà di ordinazione e controllo degli ordinamenti statuali; nessuno stato, in particolare, è da solo in grado di imporre regole nel cyber spazio che garantiscano la compatibilità con l’ordine pubblico interno dell’uso di tecnologie le applicazioni delle quali spaziano oltre i confini nazionali;
- la stessa sicurezza interna, la garanzia preventiva della quale ha pure contrassegnato la formazione degli ordinamenti statuali conosciuti: come dimostra il trasfigurare sempre più micidiale e globale del fenomeno del terrorismo generato da tensioni politiche ed economico-sociali che si producono in ambiti transnazionali, ma, in generale, la dilatazione oltre i confini nazionali di strutture e dinamiche criminali in grado di minacciare la stessa stabilità delle istituzioni statuali di intere regioni, oltre che la trasparenza e la legalità dei mercati finanziari globali.
Il progressivo ridimensionamento del ruolo e delle attribuzioni dello Stato nazione si riflette, naturalmente, innanzitutto sui processi di costruzione normativa.
Il tema, in generale, sarà oggetto di un’altra relazione, ma alcune osservazioni, del tutto secondarie, riguardano direttamente la dimensione della giurisdizione, poiché la rottura del tradizionale legame privilegiato fra diritto e Stato ha rilevanti ricadute sulle forme della giurisdizione ed anzi sulla stessa possibilità di esercizio della medesima.
Da tempo si annota come la rottura della tradizionale regola di inscindibilità della relazione tra Stato e diritto finisca per dare vita ad un tumultuoso proliferare di ordinamenti giuridici extrastatuali retti da principi e valori diversi: un diritto comune della globalizzazione, per secondari versi simile all’esperienza giuridica medievale, che ricorre a meccanismi di composizione dei conflitti di tipo non giurisdizionale, che fa a meno della giurisdizione statuale, che anzi mal ne sopporta le occasionali interferenze, che privilegia la logica della autonoma negoziazione delle sorti dei conflitti interni.
È l’antica lex mercatoria, l’ordine giuridico creato direttamente dal mercato nel quale è destinato ad applicarsi, che, apparso nel mondo medievale prima della nascita dello Stato moderno, oggi si ripropone nel mercato globalizzato, con la medesima pretesa a dettare norme sottratte alla giurisdizione dello Stato nazione.
Mentre, anzi, nella politica si tende ad avvicinare la sfera delle decisioni alla società in cui esse dovranno applicarsi (e così si affermano istanze di federalismo e sussidiarietà), nell’economia le decisioni tendono a profilarsi come il prodotto di ambienti chiusi alla percezione ed al controllo esterno.
È stato opportunamente sottolineato (Strange) come nel mondo sei compagnie di revisione contabile detengano il controllo di oltre il 90% del mercato corrispondente alle grandi imprese. Non solo, ma queste compagnie affiancano alle tradizionali funzioni di controllo contabile funzioni di consulenza (in vista di obiettivi diversificati, di fusione, elusione fiscale, etc.) che tendono a divenirne anzi l’oggetto prevalente.
Un connubio di funzioni di controllo e consulenza, si è detto (Ferrarese), che qualunque manuale di diritto ispirato ai vecchi principi dello stato di diritto descriverebbe come un monstrum.
Naturalmente, gli effetti della globalizzazione sul sistema delle fonti tendono a presentarsi con forme e rilievo diversi a seconda che si osservi il fenomeno dal punto di vista europeo o nordamericano, poiché anzi in questa esperienza l’idea stessa di un monopolio del legislatore è sempre stata avversata ed il privato ha sempre avuto un ruolo attivo ed importante nella costruzione degli equilibri normativi.
Cosa altro è, infatti, il judge made-law se non un sistema nel quale il diritto è fissato dalle corti per dare risposta a conflitti di interessi economici che i privati non riescono a comporre in modo negoziale e solo in quanto i soggetti privati non riescano a comporre negozialmente il contrasto che li può condurre dinanzi al giudice?
La globalizzazione sembra dunque costringere al cambiamento assai più i sistemi di civil law che quelli di common law, naturalmente aperti al privato ed all’influenza condizionante delle sue scelte.
All’uno ed all’altro sistema è tuttavia comune la crisi del nesso fra diritto e territorio che tradizionalmente l’idea stessa di giurisdizione.
I modelli di organizzazione sociale imposti dalla dilatazione dei mercati e delle attività economiche e ai vertiginosi progressi della tecnica delle comunicazioni finiscono per svuotare i tradizionali criteri di riconoscimento dei reciproci limiti territoriali della sovranità degli Stati.
Dove è commesso un reato che si realizza nel cyber spazio? Qual è la giurisdizione chiamata ad accertarlo? Quale valore sarà accordato dagli altri Stati all’azione di accertamento e sanzione del singolo giudice nazionale? Sono alcune delle domande alle quali soltanto oggi si cerca di dare una risposta con gli strumenti del diritto internazionale convenzionale (Convenzione del Consiglio d’Europa sul cybercrime aperta alla firma a Budapest il 23.11.2001).
Se il denaro, le informazioni, le merci oltrepassano i confini come se questi non esistessero, non soltanto si palesa la debolezza delle pretese di controllo dell’ordinamento statuale, ma si produce una condizione di tendenziale conflittualità interstatuale, sedabile soltanto attraverso il ricorso alla negoziazione ed alla armonizzazione delle regole di esercizio delle rispettive giurisdizioni.
Ma le convenzioni non risolvono tutti i problemi connessi all’effettività di un intervento giurisdizionale i potenziali destinatari del quale sono disseminati nel globo.
Nella disciplina della relazioni negoziali che avvengono nel cyber spazio, quale effettività potrà avere in astratto la pretesa del giudice nazionale a regolare, dall’esclusivo punto di vista della legge nazionale, attività che si sottraggono per loro natura ad ogni legame di territorialità?
Spesso è il mercato che finisce per svolgere un ruolo fondamentale, di pressione sul singolo operatore o sulla generalità dei medesimi a dare esecuzione spontanea alla decisione del giudice.
Alcuni casi famosi lo rivelano chiaramente.
Si pensi alla sorte della sentenza del giudice francese che aveva ordinato alla società americana di gestione di uno dei più grandi motori di ricerca sulla Rete di rendere inaccessibile agli utenti francesi (recte, ai soggetti di qualunque nazionalità in collegamento dal territorio francese) un sito di propaganda nazista, la diffusione del quale è vietata dalla leggi di quel paese, ma tollerata negli Stati Uniti in omaggio alle più late accezioni del diritto di manifestazione del pensiero.
La difficoltà, anche tecnica, ritengo, di dare esecuzione all’ordine del giudice francese che imponeva, in attuazione di una rigorosa applicazione del principio di territorialità della legge nazionale, una sorta di parziale blocco d’accesso ad un sito aperto a collegamenti planetari è stata superata dalla decisione della società statunitense di procedere spontaneamente alla chiusura del sito incriminato, per evitare sia il formarsi di un pericoloso precedente giudiziario che gli effetti negativi di una lesione della propria immagine di mercato.
D’altra parte, la giurisdizione è sempre più spesso chiamata a rendere decisioni in grado di condizionare non soltanto i mercati interni ed il comportamento dei soggetti che operano nel territorio dello Stato di appartenenza, ma mercati globali e soggetti che operano su scala transnazionale, anche quando non direttamente partecipi al processo.
Pensiamo agli effetti “globali” della sentenza del giudice federale statunitense che ha posto fine alla contrapposizione fra Napster e le corporations che controllano il mercato della riproduzione musicale, sancendo l’illiceità delle pratiche di libero accesso via internet ai prodotti musicali astrattamente oggetto della protezione assicurata ai diritti d’autore.
Nei settori della comunicazione virtuale (ma la tendenza vale ormai in ogni mercato suscettivo dell’attenzione giurisdizionale di più Stati), il mercato e gli operatori giuridici che operano con funzioni di consulenza guardano sempre più non soltanto alla giurisprudenza interna, ma anche a quella che si forma in altri stati, riconoscendosi, in fatto, ai tribunali una capacità di influenza che, naturalmente, va al di là di ogni regola formale, ma si fonda sulla capacità di persuasione della decisione e, dunque, sulla sua sostanziale attitudine a guidare gli atteggiamenti dei giudici che negli altri stati sono alle prese con problemi analoghi.
Si pensi alla delicata questione della responsabilità del provider per la diffamazione realizzata negli spazi aperti alla comunicazione autogestita dai singoli siti ovvero comunque nei forum aperti ai navigatori della Rete.
Alle decisioni americane (caso Cubby, 1991) che esclusero quella responsabilità sulla base del rilievo dell’autonomia della condotta di diffusione delle informazioni lesive dell’altrui reputazione, ovvero (caso Prodigy, 1995) addirittura condannarono il provider che aveva preteso di sospendere la diffusione di informazioni considerandole diffamatorie (in quel caso, in danno di una società di intermediazione mobiliare) in forza di un inesistente potere di controllo del contenuto delle comunicazioni, sono seguite non dissimili decisioni di tribunali europei (tale è anche la decisione con la quale la Corte di Parigi ha condannato nel 1999 un provider per la diffusione abusiva di inedite immagini di nudo di una nota cantante rock, essendo tale sentenza fondata sul dato dell’assunzione implicita di responsabilità connesso alla preventiva autorizzazione alla diffusione di informazioni rilasciata in favore di anonimo).
Si assiste, in altri termini, alla silenziosa stratificazione di una giurisprudenza multinazionale, di fatto in grado di orientare il comportamento del mercato nei singoli ambiti nazionali.
Prima di continuare ad esaminare le linee essenziali di tendenza della giurisdizione connesse ai fenomeni di globalizzazione, vale forse la pena di considerare che gli effetti del più generale processo di scomposizione della tradizionale sfera di sovranità nazionale sul ruolo della giurisdizione non devono essere esaminati soltanto dall’angolo visuale dell’avanzamento del peso delle tendenze autodisciplinanti del mercato privato e delle sue forze dominanti.
Alla denunciata difficoltà di governo degli equilibri dei mercati lo Stato reagisce anche tentando di riorganizzare le sue attribuzioni; in pratica, revisionando i tradizionali criteri di ripartizione delle sue attribuzioni e disegnando nuovi assetti di disciplina.
È il caso della autorità indipendenti, le quali, se da un lato erodono sia le funzioni normative tipiche del potere legislativo, dal quale pure derivano, che quelle di indirizzo e governo delle politiche di settore altrimenti proprie del governo, dall’altro lato, si sostituiscono ai giudici nella regolazione del conflitto che nasce in molti dei più nevralgici e delicati mercati.
La sostituzione di ruoli è assolutamente manifesta, rivelata anche dalla analogia degli apparati formali. I poteri delle autorità indipendenti sono, infatti, esercitati nelle forme tipiche della giurisdizione, applicando gli strumenti e i principi tipici del lavoro giudiziario (la contestazione, l’istruttoria, la sanzione, l’obbligo di motivazione della decisione).
La materia ha un grado di problematicità non compatibile con la finalità precipua della mia relazione, ma certo andrebbe considerato il valore del probabile nesso esistente tra la proliferazione delle autorità indipendenti (che, come noto non è esclusiva del nostro sistema) e la crisi dell’idea che il giudice sia il detentore di un esclusivo monopolio nella composizione dei conflitti che nascono dall’applicazione delle regole del mercato.
È una crisi che ha radici complesse che attengono certo anche all’idea di governare la complessità degli interessi in gioco attraverso un approccio unitario ed organico ai problemi della normazione, delle politiche di indirizzo e dell’accertamento delle deviazioni dalle regole date che finisce per deresponsabilizzare la politica, alleggerendone il carico di contrapposizione polemica; ma, certo, quell’idea è alimentata anche dall’esigenza di sottrarre quei medesimi interessi alle più lente e sovente imprevedibili procedure che si svolgono dinanzi al giudice, ad un giudice visto con la diffidenza dovuta a chi appare come “jacks of all trades and master of none” (Landis), affidandosi in sua vece a strutture di natura diversa che accentrano competenze, saperi, risorse che appaiono renderle più affidabili.
Naturalmente, la sostituzione non è mai assoluta e totalmente indolore, come forse dimostra anche la persistente tendenza delle nostre giurisdizioni contabili ed amministrative ad assoggettare indirettamente al proprio controllo l’azione delle autorità indipendenti, accentuando l’incisività del proprio sindacato di legittimità.
Per tale via i giudici contabili ed amministrativi sfidano apertamente l’originaria sfiducia verso la giurisdizione che è alla base della istituzione delle autorità indipendenti, derivandone conflitti e tensioni dall’esito non prevedibile.
Il fenomeno rivela un obiettivo indebolimento del potere giudiziario nel rapporto con il mercato, anche se l’incidenza effettiva di ciò potrebbe considerarsi attinente più alle scelte nazionali di organizzazione autonoma delle forme di composizione neutrale dei conflitti che al problema della effettività della giurisdizione.
In generale, non credo che gli effetti della globalizzazione (nelle diverse dimensioni dell’economia, delle tecnologia, della comunicazione, dell’ecologia, dei conflitti transculturali, delle dinamiche illegali) sulla giurisdizione possano essere definiti secondo un unico schema ovvero ne sia possibile tentare una descrizione unitaria.
Anche considerando la tradizionale dimensione nazionale della giurisdizione, la crisi della sovranità statuale non sempre si traduce in una corrispondente compressione della sfera di intervento del giudice.
Su alcuni versanti il ruolo della giurisdizione si dilata.
Innanzitutto, si espande il ruolo delle giurisdizioni nazionali.
Dinanzi al giudice nazionale si trasferiscono, ad esempio, temi e conflitti che nascono direttamente dalla cittadinanza multiculturale e dalle istanze di riconoscimento delle diversità (Habermas-Taylor).
Si pensi alle corti francesi chiamate a giudicare dell’uso del chador nelle scuole pubbliche francesi, e, dunque, a pronunciarsi sull’attualità di una nozione di individualità astratta, indifferente alle mutevoli regole dell’ordine di appartenenza (religiosa, etnica, sociale) del singolo.
In generale, il processo, vale a dire il ricorso al giudice è divenuto, su scala mondiale, lo strumento di riconoscimento e tutela di diritti che lo Stato non riesce a regolamentare in sede politica o che preferisce non regolare con gli strumenti della politica.
Le tradizionali categorie del diritto civile e del diritto penale divengono le leve per rimuovere ostacoli non secondari sulla strada della tutela della persona umana esposta ai pericoli dell’azione incontrollata dei grandi gruppi economici.
Si pensi, ma l’indicazione è soltanto esemplificativa, alle azioni risarcitorie promosse negli Stati Uniti a tutela dei diritti dei consumatori vittime del tabagismo nei confronti delle multinazionali del tabacco, ovvero dai dipendenti di grandi multinazionali accusate di discriminazioni razziali (caso Coca-Cola), ovvero ancora dalle associazioni degli agricoltori coinvolti nell’uso di prodotti geneticamente modificati senza adeguate informazioni sui relativi rischi per la salute (caso Monsanto), ovvero ancora dei semplici cittadini coinvolti da veri e propri disastri ambientali (caso Exxon-Valdez).
Il giudice, anche per tale via, può incidere pesantemente sugli equilibri complessivi dei mercati transnazionali, con decisioni di grande impatto economico, per ciò solo in grado di orientare anche i comportamenti futuri delle imprese e dei consumatori al di là dei confini territoriali nei quali la sua decisione è assistita dalla garanzia della coercibilità.
Banalmente, si immagini l’effetto patrimoniale della sentenza con la quale, nell’ottobre 2000, un giudice federale di Oakland ha ordinato alla Ford, accogliendo il ricorso di un gruppo di acquirenti delusi, di ritirare oltre un milione e mezzo di veicoli venduti in California considerati affetti da visi costruttivi in grado di minarne la sicurezza.
I grandi temi della salute, dell’ambiente, della tutela del consumatore vengono così convogliati nell’alveo giudiziale e gli equilibri raggiunti sul piano giudiziario finiscono per orientare le scelte politiche.
Non è un fenomeno nuovo, se soltanto si pensa al ruolo della giustizia federale statunitense nelle battaglia per i diritti civili degli anni sessanta.
Né si tratta di elementi esclusivi dell’esperienza americana, come dimostra l’evoluzione delle sensibilità giurisprudenziali europee sui medesimi temi.
Quello che è certo è che il fantasma del governo dei giudici, evocato, sulla scia di un efficace titolo di Le Monde della metà dello scorso decennio, per commentare gli eclatanti effetti di molte iniziative giudiziarie in corso in tutta Europa, riguarda innanzitutto la giustizia civile, se è vero, come è vero, che l’espansione del contenzioso civile ha dovunque una crescita esponenziale, in special modo se valutata con riferimento, oltre che al loro volume, alla natura ed alla rilevanza degli affari trattati (per restare negli Stati Uniti, dalle decisioni della giustizia federale sulla necessità di smembrare l’impero Microsoft sino alla convalida di un giudice statale dell’elezione del Presidente).
Sono fin troppo evidenti i rischi di un’impropria enfatizzazione della giurisdizione. Innanzitutto, quello della conseguente sottrazione alla responsabilità della politica ed al controllo della discussione pubblica di temi così delicati che si realizza attraverso l’affidamento delle soluzioni dei problemi più delicati e complessi al giudice, “lasciando impropriamente immaginare che le sentenze dei giudici siano più eque ed imparziali delle leggi dei parlamenti” (Baratta).
Più interessante, forse, può essere notare che la comunicazione globale produce anche opinioni pubbliche più sensibili ed attente, anche su temi prima di dominio esclusivo degli specialisti (è il caso della bioetica) ovvero esposti a tensioni sconosciute in diretta dipendenza della natura dei processi di trasformazione della produzione (ed è il caso dei diritti economici e sociali), ciò che dà luogo a nuove consapevolezze ed istanze alle quali la politica fatica ad assicurare efficace e piena traduzione.
Su altro e più articolato versante, la spinta principale al rafforzamento del ruolo delle giurisdizioni è assicurata, come vedremo, dalla progressiva moltiplicazione degli sforzi di cooperazione internazionale e sovranazionale degli Stati chiamati a compensare le altrimenti inevitabili crisi di effettività delle proprie tradizionali attribuzioni sovrane dinanzi a fenomeni transnazionali.
Talvolta, anzi, l’iniziativa unilaterale degli Stati nella regolamentazione di relazioni transnazionali produce sui mercati globali effetti obiettivamente perversi che tocca poi alla cooperazione internazionale rimediare.
Un esempio può valere a dare concretezza a quanto appena detto.
Il fenomeno della corruzione riguarda in modo diretto anche ambiti economici di grande rilevanza.
La Convenzione OECD (Parigi, 17 dicembre 1997) sulla corruzione dei funzionari pubblici stranieri nel suo preambolo riconosce la corruzione come uno strumento ordinario del commercio internazionale.
L’esperienza concreta rivela che questo tipo di corruzione attiene, in particolare, agli appalti pubblici, alla cooperazione internazionale, ai processi di privatizzazione, alla concessione di autorizzazioni amministrative, al commercio di materie prime.
La mancanza di criminalizzazione della corruzione degli agenti pubblici stranieri ed internazionali a titolo di corruzione, tipica di molti stati, era una grave lacuna che condizionava il mercato internazionale.
Lo sforzo di moralizzazione degli ordinamenti economici fu avviato originariamente soltanto negli Stati Uniti.
Gli Stati Uniti, infatti, avevano approvato sin dal 1977 (Foreign corrupt practises Act, non casualmente dopo il famoso scandalo delle tangenti pagate dall’industria aeronautica Lockheed) una legge federale che puniva la corruzione di funzionari pubblici stranieri.
A quel tempo neanche i maggiori partners commerciali degli Stati Uniti erano in grado di adottare un simile approccio al problema.
Pesavano certo anche atteggiamenti di sospetto, poiché non pochi guardarono alla scelta unilaterale americana come frutto di un moralismo che nascondeva obiettivi di egemonia commerciale e politica. Prova ne è il fatto che nel 1979 fallirono definitivamente gli sforzi di giungere ad una convenzione delle Nazioni Unite sulla corruzione.
Si realizzò così una geometrie variabile delle regole di eticità dei comportamenti privati che finì per danneggiare le imprese americane, costrette a concorrere alle gare internazionali in condizioni, per così dire, di inferiorità rispetto a quelle di paesi che consideravano lecito il pagamento di “commissioni” in favore dei funzionari pubblici del paese nel quale si svolgeva la gara (e che magari consideravano questo tipo di costi anche deducibile, a diverso titolo, a fini fiscali).
In definitiva, l’esistenza di risposte differenziate dei singoli stati si trasformava in un fattore di concorrenza sleale e di alterazione della competizione sui mercati internazionali.
Ben si può comprendere allora la ragione anche economica delle eccezionali pressioni esercitate dagli Stati Uniti per giungere infine, venti anni dopo, appunto con la citata Convenzione OECD all’accettazione di regole comuni da parte di tutti gli Stati o, almeno, dei principali protagonisti sulla scena del commercio internazionale.
[[Assai meno facile appare giustificare l’opinione espressa da un ex direttore della Central Intelligence Agency, il quale, secondo quanto riferito dalla stampa internazionale, intervistato a proposito di un uso a fini di spionaggio industriale del sistema di sorveglianza elettronica ormai noto come Echelon, avrebbe giustificato la relativa possibilità alla luce della necessità di proteggere le imprese americane dalla concorrenza sleale delle imprese che, secondo le leggi degli stati di appartenenza, potevano tranquillamente ricorrere alla capacità persuasiva del denaro.]]
Il risultato pratico è rappresentato da significativi passi avanti sulla strada della armonizzazione delle legislazioni nazionali (l’Italia, ad es. ha accettato di introdurre forme di responsabilità diretta delle persone giuridiche), della eticità delle relazioni commerciali e dei rapporti sociali, della legalità complessiva dei mercati internazionali.
La vigilanza sul comportamento dei mercati è garantita dalla giurisdizione, innanzitutto penale, dei singoli Stati, ciò che contraddice obiettivamente l’idea che ad una modificazione delle regole dei mercati transnazionali (ciò che è tipico, invero, della loro espansione) segua sempre e comunque un’erosione delle prerogative della sovranità dei singoli Stati, essendo evidente che ciò non avviene quando le giurisdizioni nazionali si caricano del peso dell’aspettativa internazionale all’abolizione delle geometrie variabili che sovente connotano la disciplina dell’agire delle imprese nei diversi mercati nazionali e che espongono i mercati a pericoli che ne minano l’equilibrio.
Ragioni analoghe spingono all’espansione del ruolo della giurisdizione nella promozione dei diritti fondamentali.
Si assiste anzi ad una visibile spinta alla globalizzazione della giustizia e delle istituzioni giudiziarie delle organizzazioni internazionali, chiamate a sostenere le aspirazioni al tendenziale universalismo dei diritti umani e alla loro protezione su scala globale.
In questa prospettiva, la sovranità statale è considerata inadeguata a fungere da leva per la salvaguardia di beni superiori come la pace, la tutela dei popoli dal rischio tremendo del genocidio, dei crimini di guerra, della violenza etnica, ciò che spiega la consistenza delle correnti del moderno pensiero giuridico e filosofico (Bobbio, Kung, Dahrendorf, Habermas) che invocano la creazione di una giurisdizione internazionale obbligatoria e di una vera e propria polizia internazionale, quale unica alternativa alla guerra e al disordine internazionale.
Le espressioni concrete di una più realistica tendenza (poiché largamente condizionata dall’apporto collaborativi degli Stati) alla protezione su base universale dei diritti individuali e dei popoli coincidono (al di là dell’esperienza originaria di Norimberga) con l’istituzione dei Tribunali internazionali per i crimini commessi nella ex Yugoslavia e per il Ruanda, ma soprattutto, per la sua portata universale, con l’approvazione dello Statuto della Corte penale internazionale destinata a giudicare dei crimini di guerra e delitti contro l’umanità ovunque commessi (Roma, 17 luglio 1998).
Un evento giudicato da molti di particolare importanza storica, anche per la fissazione che ne deriva di alcuni principi giuridici essenziali (in tema di processo, esecuzione della pena, ordinamento del giudice e del pubblico ministero), di fatto costituenti il primo nucleo di un diritto penale e processuale penale comune a Stati dalle tradizioni più diverse.
In attesa della Corte penale internazionale, alcuni Stati hanno assecondato il bisogno largamente avvertito nelle opinioni pubbliche nazionali di assicurare su scala universale una tutela dell’individuo dagli abusi dei regimi.
Accanto alle iniziative giudiziarie (spagnole, italiane, francesi) che ancorano la pretesa punitiva di abusi e violenze commesse dai capi di regimi totalitari al tradizionale volano della cittadinanza delle vittime ed agli altrettanto tradizionali strumenti della richiesta di estradizione, vi è persino il caso del Belgio che, con leggi del 1997 e del 1999, ha affidato al proprio giudice la punizione del genocidio e dei crimini contro l’umanità, senza limite territoriale alcuno, da chiunque e contro chiunque commessi.
Il tentativo di attribuire al giudice nazionale una competenza universale inconciliabile con un realistico approccio alla gravità dei fenomeno ed all’esigenza di rigorosa responsabilizzazione politica dei Governi e degli Stati si è bruscamente arenato allorquando dalla inchiesta sui crimini dell’ex presidente del Ciad si è passati alle accuse rivolte al primo ministro israeliano Sharon per i gravi fatti avvenuti nei campi profughi di Sabra e Chatila durante l’invasione del Libano del 1982.
Appena un paio di mesi fa, infatti, una provvida decisione della Corte d’Appello di Bruxelles ha interpretato il mandato legislativo in senso assai restrittivo, subordinando il riconoscimento della giurisdizione alla condizione che la persona accusata si trovi nel territorio belga, facendo così venire meno la procedibilità per tutti gli altri casi.
L’effettivo avvio dell’esperienza della Corte penale internazionale, oltre che l’effettività della sua azione futura sono largamente minati dal rifiuto statunitense di accettare una sede giurisdizionale internazionale per la punizione dei crimini di guerra che finirebbe inevitabilmente per condizionare le scelte politiche e militari di quel paese (oltre che dal timore di non pochi regimi totalitari ed illiberali, la Repubblica popolare di Cina, ad es., di accettare scomodi sindacati sulle politiche interne di repressione del dissenso e delle spinte secessionistiche, dal momento che, diversamente da quanto prevede lo Statuto del Tribunale per l’ex-Yugoslavia, la punibilità dei crimini contro l’umanità non è collegata alla necessaria esistenza di un conflitto armato).
Ma la Corte penale internazionale rappresenta in sé la più visibile ed eclatante manifestazione progettuale di una globalizzazione della giustizia che si proponga di sostituire sulla scena internazionale, come è stato forse enfaticamente sottolineato, la sovranità della legge alla sovranità della forza.
Opportunamente, lo Statuto prevede che la garanzia internazionale operi soltanto in caso di inerzia della giurisdizione nazionale, e questa regola di prevalenza è un’opportuna manifestazione di realismo programmatico, poiché proprio l’esperienza dei tribunali delle Nazioni Unite per l’ex-Yugoslavia ed il Ruanda dimostrano che uno spostamento integrale del peso che i sistemi nazionali non possono o non vogliono sostenere sulle istanze giudiziarie internazionali non corrisponde ad aspettative realistiche, poiché finisce per schiacciare le sorti dei tribunali internazionali sotto il macigno della insostenibilità dei costi o di una paradossale violazione dei diritti fondamentali degli accusati (Pocar).
Ciò che vale in ogni caso sottolineare è il dato comune rappresentato dal contributo dato dagli organismi giudiziari internazionali alle modificazioni degli scenari tradizionali.
Dinanzi ai tribunali internazionali, la protezione dei diritti umani non è governata dai comportamenti degli Stati, ma è affidata anche all’azione anche degli individui e di nuovi soggetti che non hanno identità pubblica (si pensi all’universo delle organizzazioni non governative).
Si moltiplicano, insomma, i canali di accesso e i possibili oggetti della litigation dinanzi agli organismi giudiziari internazionali.
Conseguentemente, le decisioni di questi ultimi non hanno più gli Stati nazione per destinatari esclusivi, ma producono effetti direttamente per gli individui.
Gli Stati non sono più gli esclusivi gate-keepers del diritto internazionale e ciò contribuisce a spiegare il mutato scenario dei soggetti ufficiali del diritto internazionale e la complessiva difficoltà a concepire quest’ultimo come un corpus di norme definite ed attive soltanto nell’ambito del rapporto fra Stati.
L’esempio della Corte europea di Strasburgo e della progressiva effettività conquistata attraverso la via giurisdizionale dalla Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali vale a dare concreta dimostrazione di quanto appena ricordato sia pure in un ambito transnazionale più limitato e connotato da relativa omogeneità degli ordinamenti statuali che astrattamente si riconoscono nei valori e nei principi giuridici affidati alla garanzia di quelle istituzioni transnazionali.
La globalizzazione riguarda, naturalmente, non soltanto i mercati legali e le loro dinamiche, ma anche quelli illeciti, governati da strutture criminali in grado di controllare, anche attraverso complessi meccanismi di interazione ed integrazione reciproche, traffici transnazionali che riducono persino la persona a merce, strumento di profitto, oggetto di manipolazione e sfruttamento a fini di profitto.
In intere aree del pianeta, dai Balcani all’Asia centrale o dell’estremo sud-est, da non pochi paesi latino-americani ad intere regioni dell’Africa, dalla Russia al Caucaso, la stessa stabilità politica è minacciata dall’azione dei gruppi criminali attivi nella gestione dei mercati illeciti, nell’infiltrazione dell’economia legale, nella corrosione delle istituzioni dei singoli stati attraverso l’arma della corruzione, nell’alimentazione di conflitti locali e di logiche di violenza in grado di travolgere il destino di interi popoli e dell’intera comunità internazionale.
Quando, nell’ottobre 2000, sotto l’egida delle Nazioni Unite e dell’Osce, un relativamente piccolo gruppo di specialisti discusse delle connessioni controllo dei mercati mondiali dell’oppio e dell’eroina e terrorismo e dei rischi per la stabilità politica dell’Asia Centrale, e dell’intero globo, si delinearono scenari che la comunità internazionale cominciava appena ad individuare, che gli Stati direttamente interessati negavano o minimizzavano, che l’Occidente guardava con relativa sufficienza, cullato dall’illusione della lontananza, anche geografica, del pericolo, ovvero considerava materia da affidare alle strutture di law enforcement e ai giudici dei singoli Stati, tutt’al più accentuando, anche e soprattutto sul piano della rappresentazione simbolica, gli sforzi politici finalizzati alla promozione della cooperazione giudiziaria e di polizia (ne è dimostrazione la Convenzione delle Nazioni Unite sul crimine organizzato transnazionale aperta alla firma a Palermo il 12 dicembre 2000).
Naturalmente, la cooperazione fra gli Stati a fini di giustizia è un percorso obbligato quando si è in presenza di reati che si commettono nel territorio di più stati, o gli effetti dei quali ricadono su stati diversi da quelli nei quali si pongono in essere le condotte illecite, o il profitto dei quali sia trasferito in stati diversi da quelli degli autori.
Altrettanto naturalmente, il diritto internazionale e gli sforzi di cooperazione che esso promuove e disciplina si arenano dinanzi alla debolezza di organizzazioni statuali corrose dalla corruzione (sino alla immedesimazione delle elites politiche con le organizzazioni prettamente criminali che è carattere tipizzante i cosiddetti Stati-mafia, oltre che nelle aree geografiche ridotte a no man’s land ovvero ad enormi porti franchi (Nigeria).
Ancor più naturalmente, tuttavia, conviene soffermarsi su ciò che è comunque possibile fare, anziché nella contemplazione dei limiti e degli ostacoli che soltanto l’azione politica della comunità internazionale e degli Stati possono rimuovere, di fatto fungendo la cooperazione come contrappeso e rimedio alla globalizzazione delle strutture e delle dinamiche criminali.
Soprattutto in questo settore, la cooperazione deve essere immaginata non per quello che non potrà mai essere (un sistema compiuto, valido allo stesso modo per tutti gli stati), ma per quello che è e che può continuare ad essere (un sistema di cerchi concentrici l’intensità del quale è maggiore all’interno di quelli più piccoli, progressivamente capaci però di influenzare il movimento di quelli più lontano dal centro).
L’esperienza lo dimostra.
Le soluzioni elaborate all’interno di sistemi relativamente omogenei hanno una tendenziale idoneità non soltanto ad essere accettate all’interno del sistema, ma anche di divenire un modello per gli altri stati.
La convenzione sul riciclaggio del 1990 lo dimostra. Approvata all’interno del Consiglio d’Europa ha ricevuto nel tempo l’adesione di numerosi altri stati ed è il modello di riferimento consueto di tanti accordi bilaterali.
Allo stesso modo, le regole di condotta elaborate dal FATF sono state progressivamente accettate dalle istituzioni bancarie e finanziarie internazionali come parametro di valutazione dell’affidabilità di un sistema economico e dell’adeguatezza dei sistemi giudiziari chiamati a sostenere il peso della cooperazione.
Questi esempi dimostrano che è possibile creare standards legali comuni, partendo da soluzioni in grado di essere accettate da tutti ed elevando progressivamente il livello di rigore e riducendo il numero e la rilevanza delle giurisdizioni non cooperative.
La stessa idea dei cerchi concentrici va applicata nella valutazione delle attuali evoluzioni delle regole della cooperazione giudiziaria.
All’interno dell’Unione Europea, gli Stati membri sono profondamente impegnati in un processo di cooperazione giudiziaria e di polizia e di armonizzazione legale che intende avere come ambizioso obiettivo la costruzione di quello spazio comune di giustizia e di sicurezza del quale parlò la prima volta il presidente francese Valery Giscard d’Estaing soltanto nel 1977.
Volendo essere ottimisti, l’obiettivo finale è meno lontano e irrealizzabile di quanto possa sembrare a prima vista.
I segni di ciò sono tutto sommato abbastanza visibili.
Con il Trattato di Amsterdam, la creazione di uno spazio comune di libertà, sicurezza e giustizia è divenuta un obiettivo primario dell’Unione; nella nuova configurazione il terzo pilastro comprende soltanto la cooperazione di polizia e giudiziaria in materia penale, fissandosi l’obiettivo del riavvicinamento delle normative nazionali.
La materia della cooperazione nel settore civile, come sapete, è stata trasferita nel primo pilastro, derivandone un’accelerazione dei processi di integrazione delle giurisdizioni assolutamente straordinaria, da ultimo espresso del regolamento (44/2001) con il quale, con operatività fissata a far tempo dallo scorso 1 marzo, è stata introdotta una disciplina generale della competenza giurisdizionale, del riconoscimento e dell’esecuzione delle decisioni in materia civile e commerciale.
La scelta di intervenire sulle norme di diritto internazionale privato applicabili negli Stati membri, al fine specifico di assicurare “la libera circolazione delle sentenze” e, dunque di consolidare il mercato interno dell’UE, estendendo sull’intero territorio dell’Unione la garanzia dell’effettiva possibilità di attuazione della garanzia giurisdizionale.
Se possiamo tentare un accostamento problematico sino all’azzardo, la cornice sopranazionale ha consentito di individuare solide basi normative ed affidabili meccanismi di realizzazione processuale a quel bisogno di uniformità di regole del mercato e di prevedibilità dei comportamenti delle imprese che nel mercato globale si realizza di regola attraverso l’adesione spontanea e non coercibile alle regole generate dallo stesso mercato ovvero a quelle affermate da singole organizzazioni statuali o nell’ambito di organismi tendenzialmente globali ma privi di piena e generale capacità di imposizione cogente.
Non solo. Per la via indicata, sono anche fissate le coordinate positive per la creazione di una giurisprudenza multinazionale che, nel confronto reciproco delle interpretazioni, finirà per produrre una spinta ulteriore alla armonizzazione dei sistemi giuridici nazionali.
In materia penale, tradizionale oggetto delle più gelose prerogative di esclusività nazionale degli Stati, i progressi sono assai più lenti e difficili.
Al di là delle declamazioni di principio, sembra pesare meno in questo campo la consapevolezza che condizioni di legalità ed efficienza repressiva diversificate all’interno dell’Unione sono, da un lato, fattore di turbamento della concorrenza (l’impresa tenuta a standard di trasparenza ed eticità dei comportamenti è ovviamente chiamata a sostenere costi dai quali sono esenti le imprese sulle quali pesano obblighi minori) e, dall’altro lato, fattore di inquinamento dei mercati nazionali e di minaccia per la sicurezza collettiva (i gruppi criminali, che agiscono con la medesima logica delle imprese, tenderanno a privilegiare nei loro insediamenti gli ambiti nazionali ove le aspettative di profitto ed impunità sono maggiori; naturalmente, altrettanto farà l’impresa legale che voglia approfittare di condizioni di minore protezione dell’affidamento dei terzi).
Tanto premesso, i passi avanti, compiuti nel giro di pochi anni, sono a ben vedere comunque imponenti, soprattutto se paragonati alla lentezza delle evoluzioni dei decenni precedenti.
Con l’avallo politico ricevuto dal Consiglio europeo di Amsterdam prima e da quelli di Vienna e Tampere dopo, nel settore della prevenzione e della repressione della criminalità organizzata l’UE si è dotata di veri e propri piani strategici, l’attuazione dei quali sta avvenendo in tempi relativamente brevi, come dimostrano la nascita di Europol e Eurojust (allo stato strutture embrionali e di assai limitata effettività, al di là della soddisfazione del bisogno di rappresentazione simbolica della pretesa incisività di un agire concorde degli Stati dell’Unione nella repressione dei più gravi fenomeni criminali), la creazione della rete giudiziaria europea (vale a dire di una rete di punti di contatto finalizzata allo scambio anche informale delle informazioni utili a semplificare le procedure di assistenza giudiziaria), l’attivazione di meccanismi di valutazione reciproca dell’adeguatezza dei sistemi nazionali a fronteggiare le esigenze di cooperazione, persino gli sforzi di armonizzazione del diritto sostanziale e processuale (si pensi alle convenzioni in materia di tutela degli interessi finanziari dell’Unione, di corruzione dei funzionari comunitari, di sanzioni nei confronti delle persone giuridiche, di procedure di assistenza giudiziaria, ovvero alle azioni comuni in tema di corruzione, partecipazione a gruppi criminali, traffico di persone, etc.).
All’interno di questo sistema, peraltro, si avverte sempre più la pesantezza di forme un po’ ottocentesche di cooperazione: la rogatoria, l’estradizione sono in quanto tali riconoscimenti formali di una sovranità degli stati che ha saputo indietreggiare sulla tradizionale prerogativa di battere moneta, ma che non intende fare passi indietro nelle tradizionali sfere di sovranità coincidenti con la giustizia e la sicurezza.
È certo nei fatti sempre più ardua da accettare l’idea che il passaggio della frontiera fra Ventimiglia e Mentone che separa Italia e Francia debba comportare problemi di natura non dissimile da quelli che si pongono nei rapporti non dico con la Mongolia o con Myanmar, ma anche con la Moldavia o con la Turchia, che sono Stati assai più lontani e diversi per tradizione ed intensità dei legami culturali.
L’obiettivo del futuro è quello dell’armonizzazione progressiva delle regole e del riconoscimento reciproco delle sentenze e dei provvedimenti giudiziari.
Le decisioni quadro in tema di esecuzione nel territorio europeo del mandato di cattura e degli ordini di congelamento delle cose che costituiscono prove o proventi di un reato ne costituiscono evidenti, sia pure quanto embrionali, dimostrazioni.
Sono temi che accenno soltanto, affidandone alla discussione l’eventuale approfondimento, non senza sottolineare che il rilievo costituzionale del processo di integrazione degli apparti giudiziari ha un rilievo straordinario se si prova ad abbandonare l’idea del “costituzionalismo in solo paese” che purtroppo ancora condiziona la politica e, per quanto più direttamente mi riguarda, i giudici.
Le sollecitazioni a farlo sono molteplici e sovente non facilmente percepibili.
La Carta dei diritti fondamentali dell’Unione Europea ne è la dimostrazione.
Gli articoli del Capo Vi dedicato alla Giustizia sono stati quasi oscurati dal dibattito intorno all’ampiezza del riconoscimento dei diritti: di dignità, di libertà, di uguaglianza, solidarietà, cittadinanza.
Le formule impiegate nel capo della Giustizia sono sembrate, e in parte lo sono, meramente ricognitive di principi già enunciati nelle più importanti convenzioni internazionali e nelle costituzioni nazionali ed anzi l’impressione che la genericità delle medesime non rischi di determinare un arretramento del fronte della tutela giuridica è fugata soltanto dalla lettura immediatamente successiva degli articoli 52 e 53, che garantiscono che nessuna riduzione dei livelli di protezione già accordati dai trattati comunitari, dalle convenzioni internazionali e dalle stesse costituzioni nazionali è possibile in forza di interpretazioni della Carta.
In realtà, nella Carta c’è molto di più, anche in tema di giustizia, soprattutto di giustizia penale.
Ad esempio, il principio del ne bis in idem trova un riconoscimento assolutamente importante, poiché riferito alle sentenze non del singolo stato, ma a quelle rese “nell’Unione”, ciò che è coerente con il progetto di costruzione di uno spazio giudiziario comune europeo fondato sulla mutua fiducia e sul conseguente riconoscimento reciproco delle altri decisioni giudiziarie.
Ancora, l’introduzione del principio di legalità dei reati e delle pene nella Carta, pure se apparentemente limitato alla riproduzione della formula dell’art. 7 della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo, potrebbe aprire la strada all’aperto riconoscimento di competenze penali delle Comunità, con effetti dirompenti sui tradizionali assetti dei rapporti giurisdizionali in materia penale.
Si è, infatti, sottolineato (D’Amico) che, se la Carta dei diritti nasce con l’intento di valere nei confronti delle istituzioni comunitarie, l’introduzione di un principio di legalità in materia penale vincolante per le istituzioni comunitarie altro non può significare che l’apertura verso l’attribuzione di future competenze penali direttamente in capo all’Unione. L’aver definito quel principio usando l’espressione “in base al diritto” anziché alle “leggi” sembrerebbe confermare anche sul piano testuale l’idea che non è soltanto lo Stato nazione il soggetto tenuto al rispetto di quella riserva, poiché unico titolare della giurisdizione penale.
Sono problematiche ancora in attesa di definizione e particolarmente complesse (si pensi alla difficoltà di immaginare i rischi per il principio di legalità penale connessi alla difficoltà di dare la concreta attuazione al corollario della riserva del potere punitivo penale in un sistema che vede il Parlamento europeo mero partecipe del processo normativo e non già titolare del potere legislativo.
Insomma, l’apertura all’Unione sul piano dell’esigenza delle predeterminazione dell’illecito e della sanzione rischierebbe di aprire il varco ad anacronistiche retrocessioni della legalità del sistema penale sul terreno delle fonti.
Allo stato, il cosiddetto deficit democratico delle istituzioni comunitarie è ancora un ostacolo insormontabile all’idea del trasferimento delle competenze penali dagli Stati all’Unione. Dal punto di vista dei sistemi, come il nostro, nei quali il principio di riserva di legalità è costituzionalizzato, un trasferimento, sia pure a condizioni di reciprocità, delle competenze penali nazionali verso l’Unione esigerebbe una preventiva quanto difficilmente immaginabile modifica dell’impianto costituzionale.
Ciò non significa che già oggi l’assetto degli interessi e delle istituzioni comunitarie non abbia determinato effetti profondi per il ruolo delle giurisdizioni penali nazionali.
Modificazioni assai rilevanti delle aree di intervento delle giurisdizioni nazionali sono rilevabili in corrispondenza:
- della progressiva amministrativizzazione di numerosi ed importanti settori, avendo le Comunità un potere punitivo di carattere amministrativo ormai assai ampio (il regolamento n. 2988/95 detta ormai una disciplina generale delle sanzioni amministrative e del relativo procedimento applicativo), che tende ad assorbire parte non secondaria delle istanze di prevenzione e repressione tradizionalmente affidate al giudice penale;
- della progressiva espansione del principio di cd. assimilazione che responsabilizza i sistemi nazionali ad assicurare, anche penalmente, la tutela degli interessi comunitari (il principio trovò originaria enunciazione nella sentenza della Corte di Giustizia delle Comunità europee relativa al caso cd. del mais greco (1989): la corte stabilì che gli stati membri, qualora manchino specifiche sanzioni comunitarie, devono perseguire le violazioni del diritto comunitario “in termini analoghi a quelli previsti per le violazioni del diritto interno simili per natura ed importanza; in successive pronunce, la medesima corte affermò espressamente che l’art. 5 – oggi il 10 - del Trattato delle Comunità in sé obbliga gli Stati membri “ad adottare tutte le misure atte a garantire, se necessario anche penalmente, la portata e l’efficacia del diritto comunitario” giungendo a riconoscersi il potere di sindacare la congruità delle scelte discrezionali dei legislatori nazionali sul tipo di sanzione applicabile, emergendo un obbligo di previsione di sanzioni efficaci, realmente dissuasive). Quel principio, di creazione giurisprudenziale fu poi accolto dai Trattai comunitari (Maastricht prima, Amsterdam poi).
Per l’una e per l’altra delle vie evolutive appena specificate, la giurisdizione penale nazionale incontra i limiti derivanti dall’esistenza dell’organizzazione sopranazionale: ma con il principio di assimilazione, con evidenza, viene alterata la tradizionale concezione della giurisdizione penale come sistema servente della volontà esclusiva del legislatore nazionale, aprendosi alla tutela di interessi e principi definiti in ambito sopranazionale, ma, soprattutto, ciò che più conta nell’ottica della rottura dei tradizionali confini nazionali dell’intervento penale, all’obiettivo di una tutela dei beni giuridici di rilevanza comunitaria che sia tendenzialmente uniforme ed omogenea su tutto il territorio della Comunità.
In Italia, il principio di assimilazione ha prodotto rilevanti effetti legislativi, modificandosi la portata della legge doganale, la disciplina della truffa in danno di enti pubblici, della malversazione, della corruzione, del peculato.
Altro è il discorso dell’efficacia dello strumento dell’assimilazione, che resta assai dubbia, al di là dell’assenza di alternative politicamente plausibili.
Quell’obiettivo di uniforme ed omogenea tutela degli interessi dell’Unione rischia di infrangersi sugli scogli delle differenze delle risposte normative nazionali o dell’effettività della loro applicazione.
L’obiettivo non può che essere quello dell’armonizzazione dei sistemi nazionali, unico serio baluardo dal rischio che i gruppi criminali transnazionali possano scegliere il territorio di azione in ragione della maggiore o minore efficacia della legislazione dei singoli Stati.
Si apre a questo punto la questione cruciale dell’adeguatezza degli strumenti oggi disponibili per procedere sulla strada dell’armonizzazione nel campo penale.
Difficile pensare che possa tale obiettivo realizzarsi attraverso la procedura dell’art. 28° Tce che, al comma 4, prevede che il Consiglio, deliberando secondo lo schema della co-decisione con il Parlamento europeo, possa adottare tutte le misure necessarie alla tutela degli interessi finanziari della Comunità.
La medesima norma esclude, infatti, che quelle misure possano riguardare l’applicazione del diritto penale nazionale o l’amministrazione della giustizia, con ciò obiettivamente rivelandosi che quella procedura non fu neanche pensate per risolvere il problema che abbiamo di fronte, al di là delle opzioni dottrinali più coraggiose che, valorizzando l’esigenza di garantire l’effettività della tutela degli interessi della Comunità che l’art. 280 pone comunque come obiettivo primario, sostengono che il limite dato dal riferimento al diritto penale e all’amministrazione delle giustizie nazionali altro non significa che i provvedimenti emessi dall’art. 280 del Trattato non possono avere efficacia diretta negli ordinamenti penali interni (con conseguente esclusione della possibilità di emanazione di regolamenti self-executing).
In astratto, assai più coerente e realistico è lo strumento della direttiva, con la quale l’ordinamento comunitario fissa ai singoli Stati membri degli obiettivi la realizzazione dei quali è vincolata, ma affidata, quanto a forme e modalità di realizzazione dei fini del ravvicinamento dei sistemi (e, anzi, alla stessa scelta dello strumento penale) alla discrezionalità politica degli Stati.
All’idoneità astratta dello strumento fa tuttavia riscontro una assai limitata utilizzazione pratica (di fatto, sinora si è ricorsi alla direttiva soltanto in materia di insider trading e riciclaggio), ciò concorre a dare la misura della distanza che va ancora percorsa perché una dimensione nuova della cooperazione internazionale e la stessa idea di Europa possano divenire risposte adeguate ai rischi della globalizzazione.