Processo di parti e terzietà del giudice : è necessaria la "separazione delle carriere" ?
Questo il testo dell'intervento di Armando Spataro nel seminario di Napoli del 25.2.2003, organizzato dall'ANM e dall'AIGA.
La relazione, che riflette le posizioni del Movimento per la Giustizia, aggiorna lo stato delle riflessioni della magistratura ed utilizza contributi di Borrelli, Locatelli, Caselli, Pepino, Cluny, Patrone, Castelli (Claudio), Grevi e dell'ANM
Processo di parti e terzietà del giudice: è necessaria la separazione delle carriere ?
di Armando Spataro
(Procuratore della Repubblica Aggiunto a Milano, Segretario generale del Movimento per la Giustizia)
In tema di separazione delle carriere è davvero difficile dire qualche cosa di originale, specie se ci si rivolge ad una platea composta da addetti ai lavori: ma egualmente l’attualità ci impone uno sforzo, così come spinge ad una sintesi di argomenti ed obiezioni sin qui utilizzati.
1. Premessa : la situazione esistente e le diverse definizioni in campo.
Come è noto, il sistema disegnato dalle norme dell’ordinamento giudiziario prevede che i magistrati, a semplice domanda, previo parere favorevole del Consiglio giudiziario e su delibera del Consiglio Superiore della Magistratura, possono indistintamente transitare nel corso della loro carriera, dall’esercizio delle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa; è necessario, in particolare, il parere previsto dall’art. 190 dell’ordinamento giudiziario, che, come si sa, è stato anche oggetto, vanamente, di domanda di abrogazione referendaria. In relazione alla domanda di passaggio da una carriera all’altra, non esistono limiti temporali speciali di previa permanenza nella funzione da cui si proviene, salvo quelli ordinari e generali – previsti dalla legge – di legittimazione a proporre domanda di trasferimento ad altra sede o di tramutamento da una funzione all’altra.
La Costituzione (artt. 104 I c. e 107 ult. c.), in linea con la nostra cultura e tradizione giuridica, peraltro, prevede la figura del Pubblico Ministero come totalmente autonoma ed indipendente rispetto al potere esecutivo, assistita dalla stesse garanzie del giudice e, affermata l’obbligatorietà dell’azione penale (art.112), le attribuisce la disponibilità della polizia giudiziaria (art. 109). Appare netta, nel disegno costituzionale, la antitesi del modello previsto rispetto a qualsiasi ipotesi di centralizzazione e gerarchizzazione su scala nazionale del Pubblico Ministero.
Questa carrellata, per quanto elementare, non appare superflua poiché sono proprio i principi enunciati che rischiano oggi di essere compromessi dalle prospettive di riforma ordinamentale che si addensano all’orizzonte.
Circa la separazione delle carriere è anche doveroso ricordare che la Corte Costituzionale, nell’ammettere la domanda referendaria relativa all’abrogazione dell’art. 190 ordinamento giudiziario, ha affermato (sentenza n. 37/2000) che la Costituzione, pur considerando la magistratura come unico ordine, soggetto ai poteri dell’unico Consiglio Superiore ex art. 104 Cost., non prevede alcun principio che imponga o al contrario precluda la configurazione di un’unica carriera o di carriere separate dei magistrati addetti rispettivamente all’una o all’altra funzione, o che impedisca di limitare o di condizionare più o meno severamente il passaggio dello stesso magistrato, nel corso della sua carriera, dalle une alle altre funzioni. Di ciò si deve prendere atto, pur registrandosi autorevoli affermazioni (anche da parte del Ministro della Giustizia) secondo cui, per introdurre nel nostro ordinamento la separazione delle carriere, bisognerebbe modificare la Costituzione. Diverso, invece, è il discorso su altre proposte, diverse dall’oggetto del referendum abrogativo del 2000, che oggi sono al centro del dibattito politico: concorsi separati per accesso separato alle funzioni giudicante e requirente o concorsi ad hoc per il passaggio dall’una all’altra funzione. In questo caso, per le ragioni che saranno appresso indicate (vedi par. 4), si tratta di proposte di modifiche ordinamentale che difficilmente potranno sfuggire alla declaratoria di illegittimità costituzionale.
Fatte queste ovvie premesse, è opportuno affrontare separatamente – e separatamente confutare - ciascuno degli argomenti che di solito si usano per criticare il sistema vigente e per sostenere la necessità di introdurre la separazione delle carriere in forma più o meno rigida. Con una avvertenza: nella Costituzione (Titolo IV – La Magistratura) si fa riferimento solo alle funzioni dei magistrati e “le carriere” non vengono mai nominate, ma nel lessico politico, spesso impreciso e tecnicamente insoddisfacente, si usano spesso, come alternative, due formule, quella della separazione delle funzioni e quella della separazione delle carriere. Nel primo caso, ove si alluda ad una novità da introdurre nell’ordinamento, la definizione dovrebbe essere respinta dall’addetto ai lavori, posto che la separazione delle funzioni è già prevista dal nostro ordinamento, come può ampiamente dedursi dall’art. 190 ordinamento giudiziario e dalla previsione dei citati pareri per il passaggio dall’una all’altra. E’ noto, in realtà, che – pur con le specificazioni che saranno appresso trattate - si vuole indicare, parlando di separazione delle funzioni, un sistema di incompatibilità su base territoriale che impedisca, per un tempo più o meno lungo, l’esercizio della funzione giudicante nello stesso circondario o distretto al magistrato che vi abbia in precedenza esercitato quella requirente (e viceversa). Il riferimento alla separazione delle carriere, invece, evoca un sistema in cui l’accesso alle due funzioni avvenga attraverso concorsi separati ed in cui il successivo passaggio, dall’una all’altra funzione, sia possibile previo superamento di un concorso ad hoc (anche indipendentemente dal sistema d’accesso alla professione). Ulteriori, poi, sono le sfumature ed i correttivi che accompagnano queste distinte opzioni, ma non sembra il caso – almeno in questa parte della relazione – di esaminarne il contenuto.
2. Le ragioni contro l’unicità di carriera
2.a - La contiguità tra giudici e p.m., derivante dall’appartenenza alla medesima carriera, condiziona i primi, determinandone l’appiattimento sulle tesi dei p.m. o la predisposizione a prestare maggior attenzione alla posizione dell’accusa pubblica. Sembra evidente che, in questo caso, ci si trova di fronte non ad una obiezione di carattere strettamente tecnico, ma ad un indimostrato sospetto, che sfiora il limite dell’offensività nei confronti dell’onestà intellettuale del giudice. La tesi trovò spazio nella scheda che accompagnava il referendum abrogativo respinto nel maggio del 2000, in cui si affermava : “è assolutamente impensabile che da un giorno all’altro chi ha combattuto il crimine da una parte della barricata si trasformi improvvisamente nel garante imparziale di chi criminale potrebbe non essere” ed ancora : “lo spirito di appartenenza e di colleganza tra soggetti che vivono la stessa vicenda professionale compromette..” etc. etc.
E’ notorio che la magistratura, salvo rare eccezioni, respinge compatta questo sospetto artificioso di “gratuita proclività” del giudice a simpatizzare con le tesi dell’accusatore: qualcuno, autorevolmente, ha parlato di “diffidenze plebee che scorgono ovunque collusioni” ed ha auspicato che “si verifichi sul campo, com’è doveroso nel campo delle scienze mondane, con un’indagine più o meno estesa, se, in quale misura e con quale frequenza le richieste dei pubblici ministeri, diverse da quelle di proscioglimento o di archiviazione vengano accolte dai giudici, e per quale percentuale degli accoglimenti affiori allo stato degli atti un dubbio di ragionevolezza. Soltanto all’esito di un’accurata indagine di questo tipo, che ponga in luce un tasso di scostamenti dalla ragionevolezza dotato di significatività, avrà un senso affrontare il tema della separazione delle carriere e dell’abbandono di una tradizione più che secolare di unità che ha prodotto indiscutibili frutti quali la condivisione della cultura della giurisdizione e la possibilità, transitando da una funzione all’altra, di utilizzare esperienze eterogenee” (Francesco Saverio Borrelli, MicroMega n. 1/2003).
Indagine statistica indispensabile, dunque, ponendone al centro la ricerca del tasso di scostamenti dalla ragionevolezza delle decisioni del giudice favorevoli alla tesi del P.M. anche ad evitare un uso stravagante dell’indagine stessa: ad es., è stato sostenuto il fondamento del sospetto di contiguità tra giudici e p.m. utilizzando il mero dato statistico ricavato dalla proporzione tra numero delle misure cautelari richieste dal PM., numero di quelle emesse dal Gip e numero di quelle confermate od annullate dal Tribunale del riesame. Ma il dato meramente statistico, come è stato osservato (Giuseppe Locatelli, sostituto Procuratore Generale a Brescia ), “ignora il dato relativo al comportamento di autolimitazione posto in essere del P.M. che, attenendosi al proprio ruolo di organo di giustizia e non di avvocato dell’accusa, effettua una preliminare selezione dei casi che meritano una richiesta di misura cautelare ricorrendovi nelle ipotesi di maggiore gravità per le quali è formulabile una prognosi favorevole di accoglimento”; e del resto, per dimostrare l’inconsistenza del dato statistico sganciato dall’analisi della ragionevolezza delle decisioni, basta osservare che per capovolgere le conclusioni sarebbe sufficiente che il p.m., con mentalità non di magistrato ma di semplice parte, rovesciasse sul Gip una valanga di richieste di misure cautelari, fondate e infondate, ottenendo un numero copioso provvedimenti di rigetto per ricollocare il G.I.P., secondo questa singolare concezione statistica dell’indipendenza del giudice, in posizione intermedia e terza rispetto al pubblico ministero ed al difensore. In realtà, il dato statistico così strumentalmente utilizzato – e del quale, comunque, andrebbero verificate la precisione e la costanza media sul territorio nazionale dimostra, semmai, che i pubblici ministeri fanno un uso moderato ed accorto del potere di richiesta delle misure restrittive della libertà personale e che essi condividono effettivamente, con i giudici, la cultura della giurisdizione.
2.b – Occorre comunque evitare che il giudice, per effetto della unicità della carriera, sia portatore della cultura della “lotta alla criminalità”, propria della funzione del P.M.
E’ questa una posizione che recentemente sta emergendo negli interventi di molti autorevoli avvocati penalisti, alcuni dei quali rivestono compiti di rappresentanza dell’intera categoria: abbandonato il sospetto gratuito e “plebeo” della contiguità tra giudici e p.m., si afferma – cioè – che, per garantire i cittadini, non sia tanto importante il ruolo imparziale del P.M. (o, meglio, il suo operare all’interno della cultura giurisdizionale) quanto evitare che il giudice, anche inconsapevolmente, per effetto della unicità delle carriere, condivida l’orientamento culturale del P.M. e le ragioni della sua azione istituzionale di contrasto dei fenomeni criminali. Sinteticamente, è stato detto da autorevoli rappresentanti delle Camere Penali, “il giudice non deve ispirarsi alla cultura dell’azione”. Ciò, infatti, condurrebbe il giudice al progressivo abbandono della sua necessaria terzietà rispetto alle tesi contrapposte di p.m. ed avvocati. Ma, ancora una volta, all’affermazione non fa seguito alcuna dimostrazione scientifica di tale ipotizzato atteggiamento culturale del giudice italiano
Sorprende, francamente, che l’avvocatura italiana (o parte di essa) trascuri il significato, in termini di cultura e di rafforzamento delle garanzie, dell’attuale posizione ordinamentale del P.M., cui compete anche, e non a caso, “svolgere accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta ad indagini” (art. 358 cpp). Ma meraviglia ancor di più che si possa immaginare che il giudice, per effetto di una opzione culturale - quella della contrapposizione morale ai poteri criminali di ogni tipo- non appartenente certo in esclusiva ai p.m., ma auspicabilmente condivisa dall’intera società (avvocati compresi), possa esercitare la sua funzione in modo parziale, non distaccato né sereno, comunque compromettendo la parità tra le parti nel processo penale.
Si potrebbe richiamare quanto affermato in precedenza circa la necessità di dimostrare scientificamente tale assunto, ma è chiaro che esso è smentito quotidianamente dall’esperienza di chi pratica le aule giudiziarie, ove i giudici, anche nei processi di consistenti dimensioni ed a carico di un numero elevato di imputati appartenenti alla più agguerrite cosche mafiose, dimostrano di non lasciarsi guidare dalla ragion di Stato, ma dal più rigoroso rispetto delle regole del processo e, in particolare, di quelle attinenti la valutazione delle prove.
2.c – La separazione delle carriere favorisce la maggiore specializzazione del Pubblico Ministero, richiesta dal Codice di Procedura Penale (approvato con DPR 22.9.98 n. 477 ed entrato in vigore un anno dopo)
Questa tesi sembra rivestire apparentemente maggior dignità delle altre, fondata com’è su argomentazioni “tecniche” e su condivisibili esigenze di specializzazione: si sostiene, dunque, che nel contesto venutosi a formare con l’entrata in vigore nell’89 del nuovo codice di procedura penale, sarebbe necessaria una forte caratterizzazione professionale del pubblico ministero, più facilmente perseguibile in un regime di separazione delle carriere. In proposito, pur rammentando che la necessità del parere attitudinale favorevole al passaggio di funzioni venne introdotta nell’ordinamento giudiziario proprio in occasione dell’entrata in vigore di questo codice (l’attuale formulazione dell’art. 190 Ordinamento giudiziario, infatti, è stata introdotta dall’art.29 DPR 22.9.88 n. 449), va detto che l’esigenza di professionalità specifica può essere efficacemente assicurata anche stabilendo un congruo periodo di permanenza del magistrato in quelle funzioni senza che sia necessario vincolarlo a quella esercitata, vietargli di svolgere successivamente l’altra o frapporvi sbarramenti concorsuali: infatti, appartiene ad una visione non poliziesca del ruolo la necessità di assicurare che la formazione culturale del P.M. determini la sua consapevolezza dell’esigenza di raccolta delle prove in funzione del giudizio, prove che abbiano il peso, cioè, di quelle che il giudice ritiene sufficienti per la condanna. Questa cultura accresce la specializzazione e si consegue innanzitutto attraverso l’osmosi delle esperienze professionali tra giudici e pubblici ministeri, come del resto è dimostrato da numerosi casi di eccellenti dirigenti di Procure della Repubblica che vantano pregresse esperienze nel ramo giudicante. Insomma, il percorso professionale più ricco e formativo è quello che moltiplica le esperienze, tanto più in un sistema processuale penale come il nostro che non è di tipo accusatorio puro (sul modello americano, del quale mancano alcune connotazioni essenziali quali il verdetto immotivato, la immediata esecutività della sentenza di primo grado ed il carattere facoltativo dell’azione penale), ma è piuttosto un modello misto ispirato ad istituti e principi mutuati dall’uno e dall’altro dei diversi modelli di sistema accusatorio o inquisitorio. E nel nostro ordinamento, come si è già rilevato, il P.M., anche dopo l’entrata in vigore del nuovo codice di rito, ha conservato un ruolo di organo di giustizia deputato all’applicazione imparziale della legge, conformemente alle previsioni della Costituzione vigente e dell’ordinamento giudiziario (l’art.73 R.D. 30.1.1941 n.12 prevede che il P.M. “veglia all’osservanza delle leggi..”): un ruolo antitetico ed opposto al ruolo di semplice parte, che ha consentito l’effettiva tutela dei diritti dei cittadini e della collettività.
In definitiva appare evidente, anche a chi teorizza una più accentuata specializzazione dei magistrati nelle funzioni rivestite e nei tanti “mestieri” che le caratterizzano, che la separazione delle carriere più o meno accentuate determinerebbe una perversione della specializzazione, frutto di una cultura postmoderna che compromette una visione olistica della giurisdizione: questa, infatti, costantemente considerata come totalità organizzata e non come somma di parti.
Quest’argomento offre lo spunto per contestare un’obiezione che spesso si muove a chi respinge la “separazione delle carriere”. “Ma Giovanni Falcone”, si dice, “era per la separazione delle carriere!”. Anche questa falsità è entrata nell’immaginario collettivo come una verità sgradevole per i magistrati, quale conseguenza di un’informazione addomesticata e di commentatori disattenti o in mala fede. Falcone teorizzava, in realtà, in modo assolutamente condivisibile, la necessità di una più accentuata specializzazione del P.M. nella direzione della P.G. rispetto a quanto era richiesto nel regime vigente prima del codice di rito del ’98; in innumerevoli occasioni, peraltro, aveva spiegato di non condividere la necessità di separare conseguentemente le carriere all’interno della magistratura. Le sue affermazioni, risalenti a prima del ’92 e ad epoca anteriore alle aggressioni subite in questi ultimi dieci anni dalla magistratura, non possono dunque essere strumentalizzate da alcuno.
2.d – La separazione delle carriere è ormai imposta dalla nuova formulazione dell’art.111 Costituzione che prevede la parità delle parti davanti ad un giudice terzo ed imparziale
Sotto vesti apparentemente più nobili, si ripropone, per questa via, la tesi del sospetto sulla parzialità del giudice derivante dall’unicità della carriera con il P.M. ed, a tal fine, si prende spunto dal nuovo secondo comma dell’art. 111, introdotto dalla L. cost. 23.11.99 n.2 (Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata) quasi che esso avesse introdotto nell’ordinamento un principio nuovo, mai conosciuto in precedenza, anziché esaurirsi in una norma-manifesto, enunciativa di principi già presenti e praticati nel processo penale, come in quello civile.
Vero è, invece, che, prescindendo in questa sede dalle pur possibili riserve sulla eccessiva rigidità di altre disposizioni della norma costituzionale in questione, essa è stata ed è ormai utilizzata per giustificare ogni tipo di riforma attuata o progettata dall’attuale maggioranza governativa: dalla legge sulle rogatorie a quella di modifica della composizione del Csm, dalla legge Cirami sul legittimo sospetto alla proposta di legge Pittelli (Modifiche al Cpp ed al Cp in attuazione dei principi del giusto processo).
Tralasciando gli slogan suggestivi, dunque, occorre intendersi sul principio della parità tra accusa e difesa: esso è senz’altro condivisibile e persino ovvio se si riferisce al momento processuale del giudizio in genere e del dibattimento in particolare, dove accusa e difesa si devono confrontare su un piano di assoluta parità disponendo di poteri probatori perfettamente equivalenti (art.190 c.p.p.). E sul punto si dovrebbe ricordare, piuttosto, che per effetto di varie riforme si è realizzato – negli ultimi tempi - un notevole potenziamento del ruolo della difesa, al punto che il processo è diventato un percorso ad ostacoli, infarcito di regole che sono insidie formali o cavilli, opponibili a piene mani soprattutto da chi può permettersi difese agguerrite e costose, per allungarne i tempi in modo insopportabile. In ogni caso, appare chiaro che non ha senso scaricare sulla comunanza di carriera fra PM e giudici i risentimenti originati da un presunto assetto non equilibrato del processo: significa eludere i nodi reali del problema. Sono i meccanismi di concreto funzionamento del processo, dunque, che semmai incidono sulla parità tra accusa e difesa, non certo l’unicità della carriera tra giudici e P.M., i cui ruoli e figure professionali restano diversi: un controllore resta controllore e un giudice resta giudice anche se è entrato in magistratura attraverso lo stesso concorso sostenuto dal P.M.
Ragionando diversamente – del resto - si dovrebbe imboccare, per coerenza, una strada senza uscita, nel senso di rescindere anche i rapporti fra giudici di primo grado, giudici d’appello e di cassazione. Perché non si vede come i sospetti derivanti dalla “colleganza” fra PM e giudici non debbano estendersi anche ai giudici dei diversi gradi del processo (In tal senso, più volte, Giancarlo Caselli e numerosi altri giuristi e commentatori).
Ma sulla parità tra P.M. e difensore bisogna dire altro ed avere l’onestà di riconoscere che essa non sussiste se riferita al piano istituzionale che vede i due ruoli completamente disomogenei: il difensore è un privato professionista vincolato dal solo mandato a difendere che lo obbliga a ricercare l’assoluzione o comunque l’esito più conveniente per il proprio assistito (che lo retribuisce) a prescindere dal dato sostanziale della colpevolezza o innocenza; il difensore che nello svolgimento delle indagini difensive ignori volutamente l’esistenza di prove a carico e si adoperi per ottenere l’assoluzione di un assistito di cui gli consti la colpevolezza, non viola alcuna regola deontologica ed anzi ha assolto il proprio mandato nella piena legalità e con successo professionale personale. Niente di tutto questo, fortunatamente, accade per il P.M. che con il giudice condivide l’obbligo di ricerca della verità storica e le cui indagini devono obbedire al criterio della completezza ed oggettività con previsione di rigorosi requisiti di forma stabiliti a pena di invalidità; lo stesso pubblico ministero redigente è un pubblico ufficiale che risponde disciplinarmente e penalmente della veridicità ideologica degli atti da lui documentati; il pubblico ministero non è votato alla formulazione di richieste di condanna ma si determina a richieste assolutorie ogni qualvolta reputi che il quadro probatorio sia carente; formula le proprie requisitorie in piena libertà di scienza e coscienza, e in sede di udienza (in tutte le udienze e non solo in quella dibattimentale) riceve tutela anche rispetto a possibili interferenze da parte del capo dell’Ufficio, ex art.70 comma 4 ordinamento giudiziario (così, letteralmente, Giuseppe Locatelli).
Del significato di queste differenze ontologiche (che non intaccano in alcun modo la moralità del ruolo defensionale, di alta ed irrinunciabile valenza democratica) ciascuno può agevolmente rendersi conto, in modo da comprendere che non scompariranno con un’eventuale separazione delle carriere e che la loro permanenza è positiva per i cittadini e per la collettività.
L’art.111 della Costituzione, dunque, nulla ha a che fare con la separazione delle carriere: la parità tra le parti, cui il secondo comma si riferisce, è quella endoprocessuale, garantita dalle regole del processo e, semmai, da una pari preparazione professionale, generale (e qui è pertinente l’ennesimo auspicio della formazione comune dell’intero ceto dei giuristi) e particolare (concernente, questa, la conoscenza del singolo processo). “Ma non postula affatto una impossibile omogeneità istituzionale tra pubblico ministero e difesa” (Livio Pepino, Giudici e Pubblici Ministeri, in La Magistratura, nn.1/2 2002)
2.e – La separazione delle carriere si impone anche in Italia poiché si tratta dell’assetto ordinamentale esistente o nettamente prevalente negli ordinamenti degli altri Stati a democrazia avanzata, senza che ciò comporti dipendenza dal potere esecutivo.
E’ questa un’affermazione gratuita che, in modo stupefacente, viene utilizzata anche da autorevoli commentatori, meno dai giuristi favorevoli alla separazione, i quali – evidentemente – ne conoscono la natura di mero slogan. Si tratta di una delle tante affermazioni sistematicamente utilizzate “contro” la magistratura che hanno determinato, grazie a martellanti campagne di opinione, convinzioni tanto radicate quanto errate.
E’ opportuno, dunque, dare uno sguardo a ciò che avviene nel resto del mondo per dimostrare la mancanza di fondamento dell’opinione secondo cui l’Italia dovrebbe conformarsi ad un modello, ormai diffuso in Europa e negli Stati Uniti che, pur prevedendo la separazione delle carriere, non determinerebbe affatto, come conseguenza necessaria, la sottomissione del pubblico ministero all’esecutivo.
Sarebbe sufficiente un’analisi anche superficiale della situazione internazionale o degli ordinamenti degli stati più evoluti per verificare che la realtà è abbastanza diversa da quella che spesso sentiamo descrivere in Italia. E’ chiaro, peraltro, che il confronto in questione non è sempre utile solo che si consideri che spesso esiste una radicale differenza tra gli ordinamenti presi in considerazione, frutto di tradizioni giuridiche ed evoluzioni storiche peculiari di ciascun paese : basti pensare al fatto che in Gran Bretagna manca del tutto un pubblico ministero come noi lo intendiamo. Del resto, il prof. Alessandro Pizzorusso, a proposito di indipendenza del pubblico ministero, affermava l’irrilevanza del dato numerico relativo ai paesi che seguono l’una o l’altra impostazione : “se così non fosse, quando l’Inghilterra era l’unico paese in cui esisteva la democrazia parlamentare, si sarebbe potuto invocare l’argomento comparatistico per dimostrare l’opportunità di instaurare la monarchia assoluta, che era la forma allora assolutamente prevalente”. Però possono egualmente trarsi, dalla comparazione ordinamentale, degli spunti generali per la questione che qui interessa, utili a verificare che, nel panorama internazionale, gli ordinamenti che conoscono la separazione delle carriere non costituiscono affatto la maggioranza. Inoltre – ed il dato è molto significativo ai fini che qui interessano - ove essa costituisce la regola accade spesso che chi abbia maturato esperienze professionali di pubblico ministero acquisisce una sorta di titolo preferenziale per accedere alla carriera giudicante: dunque, quell’esperienza viene considerata molto positivamente. Ma, soprattutto, non può non considerarsi che, ove esiste la separazione delle carriere, questa porta con sè la dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo. Ecco, schematicamente, con inevitabile sommarietà, la realtà di alcuni Stati, almeno di quelli i cui livelli di democrazia possono ritenersi omogenei rispetto ai nostri: in Austria, il PM è organizzato come autorità amministrativa, è gerarchicamente strutturato ed è nominato dal Ministro di Giustizia, da cui dipende; in Belgio è nominato dal Re ed il passaggio da una carriera all’altra può avvenire solo per decisione dell’esecutivo, da cui, comunque, riceve direttive di carattere generale; in Germania chi esercita la funzione requirente è un funzionario statale, nominato dall’esecutivo ed ha garanzie diminuite rispetto ai giudici, le carriere di giudici e dei pubblici ministeri, inoltre, sono separate; in Francia, la carriera è unica, è possibile passare da una funzione all’altra, ma il pubblico ministero, pur inserito nell’ordinamento giudiziario, dipende dall’esecutivo ed è sottoposto a forme di controllo di tipo gerarchico-burocratico da parte del Ministro della Giustizia. Peraltro, i problemi che derivano dalla collocazione del p.m. sono oggi, in quel paese, all’attenzione della pubblica opinione e, pur tra resistenze politiche manifestatesi dopo incriminazioni “eccellenti”, si cerca di risolverli ispirandosi al modello italiano. Proprio a causa del forte assoggettamento del pubblico ministero alle scelte dell’esecutivo, infatti, era all’esame delle forze politiche francesi una modifica ordinamentale per renderlo indipendente dal Ministro di Giustizia, ma il progetto è stato bloccato recentemente, non a caso proprio quando, anche in Francia, l’attività della magistratura è arrivata a toccare i nodi vitali del rapporto corruttivo che purtroppo caratterizzava, anche in quel Paese, l’attività della pubblica amministrazione. Questo appare illuminante sulle ragioni che talvolta motivano le scelte o le tendenze del ceto politico, di ogni colore, in materia di giustizia. Tornando alla breve e schematica carrellata su altri ordinamenti, va ricordato che, in Spagna, a carriere costituzionalmente separate, corrisponde una certa dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo; in Gran Bretagna, come si è già detto, non esiste il pubblico ministero nelle forme da noi tradizionalmente conosciute: è la Polizia che ha da sempre l’iniziativa penale e può nominare un avvocato da cui far rappresentare le sue ragioni; in Svizzera le carriere sono separate e non vi si accede mediante concorso, ma l’ esistenza di un ordinamento federale e di diversi ordinamenti statali e, dunque, di regole molto diverse tra loro, impedisce di approfondire il discorso in questa sede; in Olanda, è possibile passare dalla magistratura giudicante all’ufficio del p.m., ma questo è sottoposto alle direttive dell’esecutivo per l’esercizio discrezionale dell’azione penale; il sistema statunitense, pur se notoriamente molto diverso dal nostro, permette comunque riflessioni interessanti sul tema in esame: è un sistema che si divide in un sistema di giustizia federale, ove predomina la nomina da parte del Presidente degli Stati Uniti, ed un sistema di giustizia statale ove predomina il sistema elettorale. Orbene, pur in questa situazione di radicale differenza rispetto al nostro sistema, è possibile verificare la esistenza di una interscambiabilità tra i ruoli di giudici e pubblici ministeri che coinvolge anche l’avvocatura, dalla quale, come si sa, spesso provengono i pubblici ministeri e i giudici.
Dunque, una riflessione può trarsi dall’analisi, pur sommaria, del panorama internazionale: ovunque la carriera del PM sia separata da quella del giudice, non solo il PM stesso dipende dall’esecutivo (con l’unica eccezione del Portogallo, che non può ritenersi, però, così qualificante da ispirare le tendenze del nostro ordinamento e di cui, comunque, si dirà appresso), ma esiste, comunque, un giudice istruttore indipendente. Così, ad es., è in Francia e Spagna ove il ruolo del pubblico ministero italiano è esercitato (non senza qualche occasione di polemica con i pubblici ministeri) dal giudice istruttore, figura soppressa nel nostro sistema: evidentemente, dunque, anche in quegli ordinamenti vi è necessità di un organo investigativo che sia totalmente indipendente dall’esecutivo. Non è il caso, pertanto, di guardare ad altri ordinamenti per trarne indicazioni incoraggianti circa la possibilità di preservare l’indipendenza del P.M. dall’esecutivo in caso di separazione delle carriere.
Piuttosto, per completare la carrellata sul panorama internazionale, è molto importante ricordare come il modello ordinamentale italiano è quello verso cui tende la comunità europea; vanno citate due importanti risoluzioni: la prima è quella del Parlamento europeo che ha approvato il 16 marzo 2000, a Strasburgo, l’annuale “Relazione sul rispetto dei diritti dell’uomo nell’Unione Europea”, in cui, al paragrafo 38, figura l’invito rivolto agli Stati membri “a garantire l’indipendenza dei giudici e dei Tribunali dall’esecutivo” e ad evitare ogni interferenza politica nella nomina dei giudici e tribunali. Orbene, intanto la formula utilizzata (“Giudici e Tribunali”) è più ampia dell’usuale; ma è pure importante rilevare che l’intero paragrafo è stato approvato dall’assemblea come emendamento integralmente sostitutivo del testo proposto in Commissione dall’on. Fiori del gruppo di “Forza Italia” secondo cui l’Italia avrebbe dovuto garantire l’imparzialità dei giudici separando le carriere dei giudici e dei pubblici ministeri. La bocciatura di questa proposta, evidentemente, riveste particolare rilievo per il nostro Paese. La seconda importante affermazione è quella contenuta nel progetto di raccomandazione sul “ruolo del pubblico ministero nel sistema di giustizia penale” predisposto in vista della 49^ assemblea plenaria del 26/30 giugno 2000 della Commissione del Consiglio d’Europa per i problemi legati alla criminalità: vi si prevede che “gli Stati, ove il loro ordinamento giudiziario lo consenta, adotteranno misure per consentire alla stessa persona di svolgere successivamente le funzioni di pubblico ministero e quindi di giudice e viceversa” . Si prosegue, nella relazione, affermando che tale auspicio trae origine “non solo dalla natura complementare delle due funzioni, ma anche dalla similarità delle due professioni” e si aggiunge che tale possibilità “rappresenta una ulteriore garanzia per il pubblico ministero”. Ecco perché è possibile affermare che la comunità internazionale viaggia proprio verso quel modello ordinamentale che, invece, in Italia viene ciclicamente messo in discussione. Quasi mai per buone ragioni.
2.e/1 – La particolarità del Portogallo
La schematica analisi che precede dovrebbe, da sé, convincere dell’impossibilità di importare un sistema ordinamentale di separazione delle carriere senza determinare, conseguentemente, la sottoposizione del P.M. all’esecutivo. Ma, per esorcizzare questa ipotesi, impresentabile persino per la pubblica opinione più disattenta, qualcuno si affanna a spiegare che, in realtà, nessuno pensa, in Italia, ad un pubblico ministero sottoposto all’esecutivo : non sarebbe comprensibile, dunque, la reattività della magistratura rispetto al tema della separazione delle carriere. Si vedrà appresso che, per la verità, si sta già autorevolmente “lavorando” all’ipotesi di un controllo dell’esecutivo sull’esercizio dell’azione penale. Ma qui si vuol dimostrare altro: che dalla separazione delle carriere, cioè, scaturirerebbe comunque un’involuzione della cultura giurisdizionale del P.M., pericolosa – per l’effettiva attuazione dei principio di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e per la tutela delle loro garanzie – almeno quanto quella derivante dalla sottoposizione del P.M. all’esecutivo.
Importanti elementi di riflessione possono trarsi dall’esperienza ordinamentale portoghese: in Portogallo, sin dalla rivoluzione dei garofani (1974), vige un sistema di separazione delle carriere tra giudicanti e requirenti, senza sottoposizione di questi al potere esecutivo. Orbene, questo sistema ha determinato esattamente, nel corso della sua quasi trentennale applicazione, quel progressivo affievolimento della cultura giurisdizionale dei p.m., che è l’oggetto delle preoccupazioni della magistratura italiana. Ne ha parlato recentemente in Italia un esperto magistrato portoghese (Antonio Cluny, dirigente di Medel: intervento nel corso del congresso di Magistratura Democratica, Roma, 23/26.1.2003), il quale, ricordata la molteplicità delle funzioni attribuite al P.M., anche in quel Paese, a difesa della legalità ed a tutela del principio di eguaglianza, ha spiegato che attorno alla fine degli anni ’80 – inizio anni ’90, proprio quando l’ufficio del P.M. ha iniziato a sviluppare un’attività giudiziaria indipendente e capace di mettere in crisi la tradizionale impunità del potere economico e politico, si sono levate “autorevoli” voci a mettere in dubbio la legittimità democratica dell’ufficio del fiscal (il nostro P.M.), la diversa natura di quest’organo rispetto al potere giudiziario, la possibilità dei titolari di dare direttive alla polizia criminale e la stessa possibilità di iniziativa autonoma nel promuovimento dell’azione penale. Il dibattito è ancora in corso e, come è stato detto, è forte il rischio che possa realizzarsi un modello di privatizzazione dell’indagine, del processo penale e della giustizia penale, auspicato dalla parte più conservatrice dell’opinione pubblica e da una parte dell’avvocatura. Ma la separazione delle carriere, pur in un regime di indipendenza dall’esecutivo del P.M., ha prodotto in Portogallo una divisione nella cultura professionale dei giudici e dei magistrati del fiscal. I pubblici ministeri (ancora Antonio Cluny) hanno sviluppato una tendenza pratica a valorizzare eccessivamente gli obiettivi della sicurezza a detrimento dei valori della giustizia, mentre i giudici hanno sviluppato un’attitudine formalista che li conduce spesso ad assumere una posizione di semplici arbitri, anche quando i casi loro sottoposti esigerebbero un loro diretto intervento ed impegno per il raggiungimento degli obiettivi di giustizia. E’ stata vanificata, dunque, l’originaria intenzione del legislatore di rafforzare le garanzie dei cittadini di fronte alla legge e si è compromessa l’efficacia del processo penale. Parallelamente, infine, si è sviluppata e si è progressivamente acuita una tendenza al pregiudizio corporativo che ha innescato pericolose tensioni tra giudici, magistrati del fiscal e avvocati.
Ecco dimostrate, dunque, la perversione della specializzazione, la frammentazione dei mestieri, la perdita della visione globale e coordinata della giurisdizione.
3. Le ragioni a favore dell’unicità della carriera
Nell’esporre le ragioni “contro”, si sono in buona parte illustrate, attraverso la loro confutazione, quelle che suggeriscono di mantenere fermo l’attuale assetto ordinamentale delle carriere dei magistrati, fatta salva la possibilità di introdurre correttivi in tema di incompatibilità circondariale di cui appresso si dirà.
3.1 – La cultura giurisdizionale
Si è già più volte parlato, fin qui, di cultura giurisdizionale, ma vale la pena di approfondire il tema anche perché – è inutile negarlo – a molti cittadini, e talvolta anche agli addetti ai lavori, l’espressione appare spesso incomprensibile, quasi si trattasse di innalzare ad arte una cortina fumogena per celare supposti privilegi corporativi.
E’ quasi d’obbligo, innanzitutto, ripetere alcuni rilievi nient’affatto originali: l’Associazione Nazionale Magistrati, ad esempio, “ritiene che l’osmosi tra le diverse funzioni di giudice e di Pm, con la possibilità di passaggio dei magistrati dall’una all’altra, nell’ambito di un’unica carriera, mantenendo il P.M. nella cultura della giurisdizione, assicuri la finalizzazione esclusiva dell’attività degli uffici del pubblico ministero alla ricerca della verità” (Così in Proposte di riforma dell’ANM in tema di ordinamento giudiziario” , in La Magistratura, nn.1/2 2002). In altre parole, la possibilità di interscambio di ruolo significa innanzitutto l’acquisizione di una cultura che conduce il pubblico ministero - o dovrebbe condurlo - a valutare la fondatezza, la portata ed il valore degli elementi probatori che raccoglie non in funzione dell’immediato risultato o della cd. “brillante operazione” cui tengono evidentemente molto di più le forze di polizia, ma in funzione della loro valenza rispetto alla fase del giudizio. I canoni della valutazione della prova, cioè, devono unire pubblici ministeri e giudici, dando vita ad un sistema più garantito per i cittadini.
Del resto, nell’ambito del procedimento penale, il pubblico ministero svolge un ruolo di controllo sulla legalità dell’operato della polizia giudiziaria che ne rende palese la natura di organo di giustizia vicino piuttosto alla figura del giudice che a quella di parte deputata a sostenere in sede processuale le tesi della polizia, come avviene negli ordinamenti veramente ispirati al modello accusatorio: basti pensare agli interventi del P.M. in tema di liberazione immediata della persona arrestata o fermata fuori dai casi previsti dalla legge (art.389 c.p.p.), oppure alla attività di convalida o non convalida delle perquisizioni o dei sequestri operati dalla polizia giudiziaria, alla preliminare selezione dei casi in cui è opportuno trasmettere al Gip le richieste di intercettazioni telefoniche sollecitate dalla polizia. Si tratta all’evidenza di interventi nei quali il P.M. non svolge un ruolo repressivo ma al contrario un ruolo istituzionale di garanzia e di tutela dei diritti di libertà e dei diritti patrimoniali del cittadino nei confronti di provvedimenti limitativi adottati dagli organi di polizia di cui, diversamente, verrebbero incentivate prassi criticabili, già oggi molto diffuse. Un ruolo che il PM non potrebbe esercitare efficacemente senza essere inserito, appunto, nella cultura della giurisdizione: un inserimento tanto più saldo quanto più vi sia possibilità per chi sia stato giudice di diventare PM e viceversa. Se questo legame con l’ordine giudiziario si attenua o viene reciso, si apre la strada alla deriva del PM verso culture, deontologie e prassi ben diverse da quelle del giudice: “un corpo separato di pubblici ministeri è destinato inevitabilmente a perdere la propria indipendenza dall’esecutivo. Per la decisiva ragione che non è democraticamente ammissibile l’irresponsabilità politica di un apparato di funzionari pubblici numericamente ridotto (poco più di 1900 unità), altamente specializzato, con ampie garanzie di status, preposto in via esclusiva all’esercizio dell’azione penale: questo potere o è compensato dalla polverizzazione dei suoi titolari, dalla loro ampia rotazione nel tempo e dal loro ancoraggio alla giurisdizione (pur nelle peculiarità che li caratterizzano) oppure deve essere riportato alla sfera della responsabilità politica”. Lo ha affermato efficacemente e lucidamente anche Alessandro Pizzorusso: “Nel dibattito invelenito che è attualmente in corso gli argomenti sembrano avere perso ogni capacità di persuasione e la rivendicazione della separazione delle carriere viene agitata come una clava, senza tener conto nemmeno del fatto che un pubblico ministero assolutamente indipendente e rigorosamente gerarchizzato (con la polizia si suoi ordini) costituirebbe il potere dello Stato più forte che si sia mai avuto in alcun ordinamento costituzionale dell’epoca contemporanea (e infatti non lo si è mai avuto in alcun paese)”.
L’unica alternativa possibile, per un PM divenuto altro dalla giurisdizione, sarebbe, dunque, di finire alle dipendenze (che significa agli ordini) del Governo: e ciò per ragionamento logico ed istituzionale, non certo in base ad arbitrari processi alle intenzioni di questa o quella maggioranza politica contingente.
Davvero un’ultima annotazione si impone sul punto : la impennata di domande di trasferimenti di pubblici ministeri ad uffici giudicanti, alla vigilia del referendum del 2000 o in occasione dei rinnovati e ciclici propositi dell’attuale maggioranza politica di riformare il regime delle carriere, si spiega con la preoccupazione che evidentemente essi nutrono di vedersi precluso l’eventuale accesso alla carriera giudicante e sottoposti alle direttive dell’esecutivo: ciò significa che la cd. “cultura giurisdizionale” e l’orgoglio della propria indipendenza, costituzionalmente garantita, sono valori che vivono profondamente nella coscienza dei magistrati italiani e che andrebbero rafforzati, piuttosto che mortificati.
3.2 – Il dato statistico
E’ opportuno ragionare ancora attorno all’appena citato dato statistico: si parla molto spesso, cioè, del rischio di inquinamento della funzione giudicante che sarebbe determinato dal continuo passaggio dei magistrati da una carriera all’altra; in realtà, anche a prescindere dalla superficiale prospettazione di questo timore (si rimanda a quanto sin qui specificato), quasi mai si considerano i dati statistici di cui pure si dispone e che il CSM inviò anche al Comitato promotore del referendum. Tra il ’93 ed il ’99, infatti, la percentuale di giudici trasferitisi a domanda agli uffici del P.M. risulta sostanzialmente costante, oscillando tra un minimo del 6% ed un massimo dell’8,50% ; anche nel caso di trasferimenti in direzione opposta, le percentuali nello stesso periodo sono costanti, oscillando tra il 10% e il 17%. Quali riflessioni trarre da questi dati? Da un lato, evidentemente, che quella “trasmigrazione”, secondo alcuni “inquinante” culturalmente e professionalmente, non è poi così massiccia come si crede (salvo le impennate causate dagli annunci dell’imminenza della riforma); dall’altro, che la ragione di questa contenuta tendenza alla preservazione della funzione esercitata sta forse nel fatto che si va affermando quell’esigenza di specializzazione che molti indicando tra i possibili e più efficaci strumenti di risoluzione di conflitti e tensioni.
3.3 - Unica formazione e unico CSM
Ecco, dunque, che la magistratura, anche grazie ai principi contenuti nelle circolari del CSM, è in grado – da sé – di amministrare con razionale equilibrio i frutti derivanti, da un lato dalla pluralità delle esperienze professionali e, dall’altro, dalla specializzazione nell’esercizio di determinate funzioni. Ma, come s’è detto in precedenza, la specializzazione ha senso all’interno di una visione totale della giurisdizione: l’appartenenza ad un’unica carriera, dunque, pur nella diversità delle funzioni esercitate, giustifica un percorso professionale unico di formazione e di aggiornamento professionale e giustifica l’esistenza di un unico Consiglio Superiore della Magistratura. E’ evidente che formazione comune ed un unico CSM, dovendosi occupare di problemi definitivamente diversi, non avrebbero ragione di essere in presenza di carriere separate.
3.4 - Condizionamento del giudice: conseguenza certa della separazione delle carriere
Va da sé che la dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo e/o l’involuzione culturale che lo colpirebbe in caso di separazione delle carriere finirebbero con il condizionare il giudice, in quanto al suo esame sarebbero sottoposti unicamente gli affari trattati da un pubblico ministero che, inevitabilmente e come avviene in altri ordinamenti, dovrebbe attenersi alle direttive ministeriali in materia o che potrebbe essere condizionato da orientamenti culturali di natura prevalentemente securitaria. Si comprende, dunque, come anche la funzione giurisdizionale in senso stretto ne risulterebbe gravemente vulnerata
3.5 – La tendenza internazionale alla creazione di organismi inquirenti e giudicanti sovranazionali richiede la forte difesa degli assetti ordinamentali oggi esistenti in Italia
E’ noto che negli ultimi anni sono stati compiuti in Europa passi concreti verso la realizzazione di un’effettiva rete di cooperazione giudiziaria nel campo criminale. Sono stati costituiti organismi di polizia, amministrativi e para-giudiziari di indubbia importanza (Europol, Rete giudiziaria europea e relativi “punti di contatto” tra le autorità giudiziarie degli Stati membri dell’Unione, magistrati di collegamento, Olaf nel settore antifrode, Eurojust, Corte Penale internazionale permanente) ed è noto che si discute della creazione di un vero e proprio ufficio del P.M. europeo (competente solo su alcuni tipi di reato) e del Corpus Juris che dovrebbe dar vita ad un diritto penale sostanziale minimo, comune a tutti gli Stati membri.
In questa prospettiva, e mentre i lavori sono ancora in corso, si pone in tutta la sua evidenza, non solo per l’Italia, il problema della garanzia di indipendenza che dovrà essere riconosciuta ai magistrati che, a vario livello, esercitano ed eserciteranno la funzione di P.M. in tutti gli organismi giudiziari sovranazionali ed internazionali che sono stati rapidamente (ed un po’ tumultuosamente) creati nel corso dell’ultimo decennio (Così Ignazio Juan Patrone, attualmente presidente di Medel).
Orbene, valutando il “senso di marcia” della evoluzione in atto, i poteri di ingerenza nelle funzioni giudiziarie di indagine che inevitabilmente saranno attribuiti agli organismi internazionali, i loro compiti di coordinamento, di impulso ed iniziativa rispetto agli organi inquirenti nazionali ed in settori criminali di indubbio ed oggettivo rilievo, appare evidente che la preservazione dell’attuale assetto ordinamentale potrà garantire la presenza in quegli organismi di magistrati italiani indipendenti dall’esecutivo ed animati da quella cultura giurisdizionale di cui si è fin qui più volte parlato. Una cultura che l’Italia dovrebbe preoccuparsi di diffondere nel resto di Europa, invece di disperdere.
4. – Rapporti tra potere politico e magistratura. Il vero senso delle riforme “rancorose”
In ogni parte del mondo, come si sa, si registrano contrasti tra giustizia, politica, economia, ma in nessuna parte del mondo il livello di tali contrasti ha portato ad una situazione di vero pericolo per l’indipendenza della magistratura ed alla violazione del principio della separazione dei poteri che è alla base di ogni ordinamento democratico. Si ripetono le accuse di parzialità e mala fede rivolte ai magistrati anche dal Presidente del Consiglio, da Ministri e sottosegretari e tutti vi sono coinvolti : P.M. e giudici penali, giudici del lavoro e giudici minorili, l’ultimo degli uditori giudiziari e le Sezioni Unite della Corte di Cassazione. La crisi della divisione dei poteri si è mostrata in tutta la sua pericolosità in Senato, il 5 dicembre 2001, allorchè è stata approvata, a maggioranza, una mozione in cui si “denunciavano” riunioni clandestine tra giudici e PM per trovare il modo di violare la legge sulle rogatorie e si bocciavano senza appello l’interpretazione della medesima adottata dai collegi giudicanti milanesi (indicando loro quella che sarebbe stata corretta) e le decisioni da questi assunte in tema di impedimenti a comparire in giudizio di imputati parlamentari. Nello stesso senso, peraltro, vanno le reazioni del mondo politico successive a sentenze sgradite. Significativamente, dopo una recente decisione delle Sezioni unite della Corte di Cassazione, sgradita ad imputati eccellenti ed ai loro difensori (in buona parte parlamentari), si è riacceso il dibattito sulle riforme ordinamentali, prima tra tutte quella sulla separazione delle carriere : questa è stata presentata, per l’ennesima volta, come una riforma da attuarsi rapidamente in nome dell’efficienza e delle garanzie per i cittadini. In realtà essa nulla ha a che fare con l’una e con le altre e si iscrive, invece, all’interno di un pacchetto di riforme “rancorose”(efficace definizione del Vice Presidente del Csm, on.le prof. Virginio Rognoni) e punitive ed ha un solo fine reale : il depotenziamento del ruolo del P.M. e la sua sottoposizione al potere esecutivo.
L’1.2.03, l’on.le G. Pecorella, Presidente della Commissione Giustizia della Camera, ha lanciato la proposta di far eleggere i capi delle Procure da organismi politici (Parlamento e Consigli Regionali) ed il Ministro della Giustizia ha rilanciato due giorni dopo, ipotizzando concorsi separati per l’accesso alle due carriere e concorsi ulteriori per il passaggio dall’una all’altra; già da tempo, inoltre, si discute dell’attribuzione al Parlamento, su proposta del Ministro della Giustizia, delle scelte delle priorità investigative (il che sarebbe sufficiente di per sé a vanificare il principio di obbligatorietà dell’azione penale ed a depotenziare il ruolo del P.M., senza neppure necessità di sottoporlo al controllo dell’esecutivo), nonché dello sganciamento dell'attività della P.G. dalla direzione e dal controllo del P.M. (di cui s’è già visto un significativo anticipo nel D.L. 18.10.2001, n. 374, conv. in L. 15.12.01 n.438, Disposizioni urgenti per contrastare il terrorismo internazionale).
Proprio quest’ultima prospettiva appare allarmante almeno quanto quella dell’allontanamento ordinamentale e culturale del P.M. dal giudice: sottrarre ai Pubblici Ministeri la direzione ed il coordinamento della Polizia Giudiziaria non solo farebbe rivivere il regime antecedente a quello introdotto dal Codice di rito dell’88, ma depotenzierebbe l’organo dell’accusa e, riducendolo al rango di funzionario amministrativo, comprometterebbe inevitabilmente il livello delle garanzia riconosciute ai cittadini.
Qualcuno sembra minimizzare il livello di queste preoccupazioni, quasi esse fossero, a loro volta, il frutto di pregiudiziale sfiducia nella classe politica: bisogna analizzare, in realtà, la storia di questo Paese ed, in particolare, la tradizione dei rapporti tra politica e magistratura in Italia. Questi anni non ci hanno consegnato una storia tranquillizzante e ciò - è bene chiarirlo - indipendentemente dal colore dei governi che si sono succeduti: in Italia è difficile praticare e perfino immaginare un rapporto sereno tra politica e magistratura, ispirato, come avviene in altri ordinamenti evidentemente caratterizzati da un più elevato senso dello stato, al rispetto della funzione giurisdizionale. Basti pensare alla possibilità che in ogni sistema è data alla magistratura di indagare e processare capi di governo e uomini potenti, senza che alcuno, pur difendendosi, accusi i giudici di partigianeria politica, tenti di influenzare la pubblica opinione attraverso i mezzi d’informazione che controlla e promuova l’approvazione di leggi vantaggiose per sè.
Ed è pure singolare osservare che, proprio in un periodo in cui si alimentano polemiche pretestuose contro la magistratura tacciata di esercitare l’azione penale per fini politici, il rimedio proposto non consiste in una più accentuata distinzione della sfera politica rispetto alle questioni di giustizia, ma in proposte complessivamente dirette ad aumentare l’incidenza della “politica” nella sfera di amministrazione della giustizia : prima tra tutte la separazione formale o di fatto delle carriere, con conseguente ed inevitabile spostamento del p.m. verso la sfera dell’esecutivo.
Nell’attualità ed alla luce delle incerte notizie che filtrano dal dibattito politico (incertezza derivante anche da una singolare circostanza: al di fuori del Parlamento, delle Commissioni Ministeriali, dell’Ufficio Legislativo del Ministero della Giustizia, l’elaborazione dell’ennesimo progetto di riforma ordinamentale è stata ora affidata ad un Direttorio politico, composto da “quattro saggi” - il Ministro della Giustizia, un suo sottosegretario e due parlamentari appartenenti rispettivamente ai due maggiori partiti della coalizione di Governo- che non ha ancora ultimato i suoi lavori), sembra prevalere l’ipotesi di modifica dell’art.5 del già noto d.d.l. sull'ordinamento giudiziario (approvato dal Consiglio dei Ministri il 14.3.2002), nel senso di prevedere due concorsi distinti e separati per l’accesso, rispettivamente, alle funzioni giudicanti e requirenti o, in alternativa, un concorso unico per l’accesso in magistratura con successivi filtri e concorsi per il passaggio dall’una all’altra funzione, ma con impossibilità di svolgere una funzione diversa nel distretto di provenienza (la cd. incompatibilità distrettuale) : prende corpo, così, la separazione delle carriere tante volte agitata come arma minacciosa nei confronti di una magistratura recalcitrante ed attestata senza compromessi a difesa della propria indipendenza. Si tratta, peraltro, di una proposta di dubbia costituzionalità quanto al doppio concorso, stante la lettera dell'art. 106 Costituzione che parla di "concorso", da intendersi come unico, ed in contrasto con l' art. 105 Costituzione che attribuisce solo al CSM – e non, dunque, ad un’eventuale commissione esaminatrice all’interno di un concorso ad hoc - il compito di valutare i giudici ed i P.M. anche in caso di trasferimento ad altro ufficio, con contestuale mutamento di funzioni. La modifica ordinamentale, se approvata, darebbe luogo, peraltro, ad innumerevoli rigidità nelle assegnazioni dei magistrati che mortificherebbero le loro reali capacità ed attitudini. Lo scopo che viene perseguito non è quello di dar vita ad un ordinamento giudiziario moderno ed efficiente, ma quello di pervenire al controllo politico sul P.M. (così anche Claudio Castelli, segretario generale di MD)
5. La posizione della magistratura
Le eventuali modifiche dell’attuale assetto della carriera dei magistrati, in tema di ulteriore distinzione delle funzioni giudicanti e requirenti, potrebbero ruotare attorno alla necessità di una maggiore specializzazione nell’uno o nell’altro ruolo ed a quella di evitare che il passaggio di funzioni in ambito territorialmente ristretto possa offuscare l’esercizio della nuova funzione. Parole chiare e condivisibili sono state enunciate, in proposito, dall’ANM: “Occorre garantire una migliore specializzazione ed un più elevato livello di professionalità specifica nei magistrati chiamati ad adempiere all’uno o all’altro ruolo e prevedere un opportuno momento di valutazione nel passaggio dall’esercizio di una funzione all’altra (ndr.: è ben possibile, dunque, ipotizzare la frequenza di corsi di formazione e riconversione in caso di mutamento di funzione e la formulazione di un parere ex art. 190 ordinamento giudiziario più articolato e preciso rispetto a quanto oggi avviene, sulla base di parametri che potrebbero essere fissati anche in sede di normativa secondaria dal CSM). Occorre inoltre adottare le misure necessarie per assicurare che tale passaggio non avvenga con modalità ed in un contesto tale da poter anche solo ingenerare il dubbio che possa derivarne un’influenza negativa sull’esercizio della nuova funzione. A tale fine (a parte la considerazione che l’incompatibilità non ha ragione di essere nelle ipotesi in cui dalle funzioni requirenti si acceda alle funzioni giudicanti civili) ci sembra necessario e sufficiente un meccanismo costruito attorno alla incompatibilità a livello di circondario (ndr.: il magistrato potrebbe essere adibito a nuove funzioni, dunque, solo ove intervenisse il contemporaneo trasferimento ad altro Tribunale, salvo il caso di trasferimento di un PM alla funzione giudicante nel ramo civile. Resterebbe da determinare il tempo di durata minima nella permanenza in un diverso Tribunale, ma non vi è ragione per determinarlo in misura superiore al periodo di legittimazione minima - previsto dalle norme dell’ordinamento giudiziario - che ogni magistrato deve avere maturato in un certo ufficio, prima di potere richiedere il trasferimento ad altra sede). In conclusione, una volta adottata, opportunamente, la opzione per la cd. distinzione delle funzioni, occorre evitare che la concreta disciplina (anche per la durata massima della incompatibilità) possa dar luogo in realtà ad una sostanziale vera e propria separazione delle carriere” . Queste condivise posizioni sono state espresse ufficialmente dall’ANM (Proposte di riforma dell’ANM in tema di ordinamento giudiziario” , in La Magistratura, nn.1/2 2002) che, peraltro, che per evitare equivoci semantici attorno al binomio “separazione delle carriere” – “separazione delle funzioni” potrebbe opportunamente tralasciare ogni riferimento lessicale alla “separazione” o “distinzione delle funzioni”, parlando più semplicemente di “incompatibilità circondariale”. Si eviterebbe, così, di dar luogo a quei dubbi che anche gli interventi di forze politiche contrarie alla separazione delle carriere hanno alimentato: ancora nell’ultimo documento programmatico dei D.S. si propone la “Netta separazione delle funzioni tra P.M. e giudici”, dove la novità rispetto agli equivoci del passato sta nell’aggettivo “netta” di cui non è ancora chiaro il senso giuridico.
Si può convenire, dunque, sull’inopportunità che chi è stato pubblico ministero compaia il giorno dopo come giudice nello stesso Tribunale avanti al quale ha esercitato per anni funzioni requirenti (e viceversa) : lo stesso Consiglio Superiore della Magistratura, del resto, in una sua risoluzione del 24.2.93, si era espresso in favore di un sistema di incompatibilità a livello circondariale in caso di mutamento di funzioni in uffici di primo grado (Livio Pepino, articolo citato). Un sistema di incompatibilità più esteso a livello territoriale, ad esempio in ambito distrettuale, finirebbe con l’introdurre sbarramenti eccessivamente rigidi e con il pregiudicare l’utile osmosi delle esperienze professionali dei magistrati. Vittorio Grevi (Corriere della Sera, 21.2.03), a dire il vero, afferma l’utilità della introduzione di un rigido divieto anche al passaggio dei magistrati giudicanti dal Tribunale alla Corte d’Appello dello stesso Distretto. Questa riflessione, anche per l’autorevolezza della fonte e per la sua specchiata posizione a difesa della indipendenza della magistratura, ben merita di essere ulteriormente approfondita.
L’attuale situazione dei rapporti tra politica e magistratura induce a temere, come è stato correttamente osservato (Giovanni Galloni, già Vice Presidente del CSM, Il Popolo, 12.11.02), che l’attuale maggioranza “riduca la questione della giustizia ad una semplice affermazione di potere dei politici nei confronti dei magistrati. In tal modo essa va verso una violazione dei principi costituzionali dell’autonomia e della indipendenza della Magistratura”. E’ dunque possibile che nei prossimi mesi il Governo proceda a scelte irrazionali e punitive nei confronti della Magistratura, prima tra tutte quella della separazione delle carriere. Forse, dopo le importanti e recenti prese di posizione del mondo accademico, solo un’assunzione di piena consapevolezza da parte dell’avvocatura della centralità del problema e della sua pertinenza all’esclusivo tema delle garanzie dei cittadini e della loro eguaglianza di fronte alla legge, potrà evitare una deriva che appare pericolosa per la qualità della democrazia possibile in questo Paese: è da respingere, infatti, l’assunto – che taluni strumentalmente propagano – secondo cui l’atteggiamento della magistratura, fermamente contrario alla cd. separazione delle carriere, sia dettata in qualche modo da interessi corporativi. Non è incoraggiante, a dire il vero, il recentissimo documento programmatico della Unione della Camere Penali Italiane in tema di separazione delle carriere in cui, insieme alla condivisibile proposta di istituzione di una Scuola di Formazione Comune per l’accesso alle professioni giudiziarie, si propugnano i due concorsi separati per l’accesso alle due funzioni, la partecipazione al relativo concorso o esame per il passaggio da una funzione all’altra e la separazione del CSM in due Sezioni, l’una per la funzione giudicante e l’altra per la funzione requirente. Ma il dialogo deve continuare : solo l’azione compatta del ceto dei giuristi, infatti, in quanto tecnicamente qualificato, potrà infatti invertire la tendenza e sollecitare le preoccupazioni di quanti, in ogni schieramento politico, hanno a cuore il principio di legalità.
Questo il testo dell'intervento di Armando Spataro nel seminario di Napoli del 25.2.2003, organizzato dall'ANM e dall'AIGA.
La relazione, che riflette le posizioni del Movimento per la Giustizia, aggiorna lo stato delle riflessioni della magistratura ed utilizza contributi di Borrelli, Locatelli, Caselli, Pepino, Cluny, Patrone, Castelli (Claudio), Grevi e dell'ANM
Processo di parti e terzietà del giudice: è necessaria la separazione delle carriere ?
di Armando Spataro
(Procuratore della Repubblica Aggiunto a Milano, Segretario generale del Movimento per la Giustizia)
In tema di separazione delle carriere è davvero difficile dire qualche cosa di originale, specie se ci si rivolge ad una platea composta da addetti ai lavori: ma egualmente l’attualità ci impone uno sforzo, così come spinge ad una sintesi di argomenti ed obiezioni sin qui utilizzati.
1. Premessa : la situazione esistente e le diverse definizioni in campo.
Come è noto, il sistema disegnato dalle norme dell’ordinamento giudiziario prevede che i magistrati, a semplice domanda, previo parere favorevole del Consiglio giudiziario e su delibera del Consiglio Superiore della Magistratura, possono indistintamente transitare nel corso della loro carriera, dall’esercizio delle funzioni giudicanti a quelle requirenti e viceversa; è necessario, in particolare, il parere previsto dall’art. 190 dell’ordinamento giudiziario, che, come si sa, è stato anche oggetto, vanamente, di domanda di abrogazione referendaria. In relazione alla domanda di passaggio da una carriera all’altra, non esistono limiti temporali speciali di previa permanenza nella funzione da cui si proviene, salvo quelli ordinari e generali – previsti dalla legge – di legittimazione a proporre domanda di trasferimento ad altra sede o di tramutamento da una funzione all’altra.
La Costituzione (artt. 104 I c. e 107 ult. c.), in linea con la nostra cultura e tradizione giuridica, peraltro, prevede la figura del Pubblico Ministero come totalmente autonoma ed indipendente rispetto al potere esecutivo, assistita dalla stesse garanzie del giudice e, affermata l’obbligatorietà dell’azione penale (art.112), le attribuisce la disponibilità della polizia giudiziaria (art. 109). Appare netta, nel disegno costituzionale, la antitesi del modello previsto rispetto a qualsiasi ipotesi di centralizzazione e gerarchizzazione su scala nazionale del Pubblico Ministero.
Questa carrellata, per quanto elementare, non appare superflua poiché sono proprio i principi enunciati che rischiano oggi di essere compromessi dalle prospettive di riforma ordinamentale che si addensano all’orizzonte.
Circa la separazione delle carriere è anche doveroso ricordare che la Corte Costituzionale, nell’ammettere la domanda referendaria relativa all’abrogazione dell’art. 190 ordinamento giudiziario, ha affermato (sentenza n. 37/2000) che la Costituzione, pur considerando la magistratura come unico ordine, soggetto ai poteri dell’unico Consiglio Superiore ex art. 104 Cost., non prevede alcun principio che imponga o al contrario precluda la configurazione di un’unica carriera o di carriere separate dei magistrati addetti rispettivamente all’una o all’altra funzione, o che impedisca di limitare o di condizionare più o meno severamente il passaggio dello stesso magistrato, nel corso della sua carriera, dalle une alle altre funzioni. Di ciò si deve prendere atto, pur registrandosi autorevoli affermazioni (anche da parte del Ministro della Giustizia) secondo cui, per introdurre nel nostro ordinamento la separazione delle carriere, bisognerebbe modificare la Costituzione. Diverso, invece, è il discorso su altre proposte, diverse dall’oggetto del referendum abrogativo del 2000, che oggi sono al centro del dibattito politico: concorsi separati per accesso separato alle funzioni giudicante e requirente o concorsi ad hoc per il passaggio dall’una all’altra funzione. In questo caso, per le ragioni che saranno appresso indicate (vedi par. 4), si tratta di proposte di modifiche ordinamentale che difficilmente potranno sfuggire alla declaratoria di illegittimità costituzionale.
Fatte queste ovvie premesse, è opportuno affrontare separatamente – e separatamente confutare - ciascuno degli argomenti che di solito si usano per criticare il sistema vigente e per sostenere la necessità di introdurre la separazione delle carriere in forma più o meno rigida. Con una avvertenza: nella Costituzione (Titolo IV – La Magistratura) si fa riferimento solo alle funzioni dei magistrati e “le carriere” non vengono mai nominate, ma nel lessico politico, spesso impreciso e tecnicamente insoddisfacente, si usano spesso, come alternative, due formule, quella della separazione delle funzioni e quella della separazione delle carriere. Nel primo caso, ove si alluda ad una novità da introdurre nell’ordinamento, la definizione dovrebbe essere respinta dall’addetto ai lavori, posto che la separazione delle funzioni è già prevista dal nostro ordinamento, come può ampiamente dedursi dall’art. 190 ordinamento giudiziario e dalla previsione dei citati pareri per il passaggio dall’una all’altra. E’ noto, in realtà, che – pur con le specificazioni che saranno appresso trattate - si vuole indicare, parlando di separazione delle funzioni, un sistema di incompatibilità su base territoriale che impedisca, per un tempo più o meno lungo, l’esercizio della funzione giudicante nello stesso circondario o distretto al magistrato che vi abbia in precedenza esercitato quella requirente (e viceversa). Il riferimento alla separazione delle carriere, invece, evoca un sistema in cui l’accesso alle due funzioni avvenga attraverso concorsi separati ed in cui il successivo passaggio, dall’una all’altra funzione, sia possibile previo superamento di un concorso ad hoc (anche indipendentemente dal sistema d’accesso alla professione). Ulteriori, poi, sono le sfumature ed i correttivi che accompagnano queste distinte opzioni, ma non sembra il caso – almeno in questa parte della relazione – di esaminarne il contenuto.
2. Le ragioni contro l’unicità di carriera
2.a - La contiguità tra giudici e p.m., derivante dall’appartenenza alla medesima carriera, condiziona i primi, determinandone l’appiattimento sulle tesi dei p.m. o la predisposizione a prestare maggior attenzione alla posizione dell’accusa pubblica. Sembra evidente che, in questo caso, ci si trova di fronte non ad una obiezione di carattere strettamente tecnico, ma ad un indimostrato sospetto, che sfiora il limite dell’offensività nei confronti dell’onestà intellettuale del giudice. La tesi trovò spazio nella scheda che accompagnava il referendum abrogativo respinto nel maggio del 2000, in cui si affermava : “è assolutamente impensabile che da un giorno all’altro chi ha combattuto il crimine da una parte della barricata si trasformi improvvisamente nel garante imparziale di chi criminale potrebbe non essere” ed ancora : “lo spirito di appartenenza e di colleganza tra soggetti che vivono la stessa vicenda professionale compromette..” etc. etc.
E’ notorio che la magistratura, salvo rare eccezioni, respinge compatta questo sospetto artificioso di “gratuita proclività” del giudice a simpatizzare con le tesi dell’accusatore: qualcuno, autorevolmente, ha parlato di “diffidenze plebee che scorgono ovunque collusioni” ed ha auspicato che “si verifichi sul campo, com’è doveroso nel campo delle scienze mondane, con un’indagine più o meno estesa, se, in quale misura e con quale frequenza le richieste dei pubblici ministeri, diverse da quelle di proscioglimento o di archiviazione vengano accolte dai giudici, e per quale percentuale degli accoglimenti affiori allo stato degli atti un dubbio di ragionevolezza. Soltanto all’esito di un’accurata indagine di questo tipo, che ponga in luce un tasso di scostamenti dalla ragionevolezza dotato di significatività, avrà un senso affrontare il tema della separazione delle carriere e dell’abbandono di una tradizione più che secolare di unità che ha prodotto indiscutibili frutti quali la condivisione della cultura della giurisdizione e la possibilità, transitando da una funzione all’altra, di utilizzare esperienze eterogenee” (Francesco Saverio Borrelli, MicroMega n. 1/2003).
Indagine statistica indispensabile, dunque, ponendone al centro la ricerca del tasso di scostamenti dalla ragionevolezza delle decisioni del giudice favorevoli alla tesi del P.M. anche ad evitare un uso stravagante dell’indagine stessa: ad es., è stato sostenuto il fondamento del sospetto di contiguità tra giudici e p.m. utilizzando il mero dato statistico ricavato dalla proporzione tra numero delle misure cautelari richieste dal PM., numero di quelle emesse dal Gip e numero di quelle confermate od annullate dal Tribunale del riesame. Ma il dato meramente statistico, come è stato osservato (Giuseppe Locatelli, sostituto Procuratore Generale a Brescia ), “ignora il dato relativo al comportamento di autolimitazione posto in essere del P.M. che, attenendosi al proprio ruolo di organo di giustizia e non di avvocato dell’accusa, effettua una preliminare selezione dei casi che meritano una richiesta di misura cautelare ricorrendovi nelle ipotesi di maggiore gravità per le quali è formulabile una prognosi favorevole di accoglimento”; e del resto, per dimostrare l’inconsistenza del dato statistico sganciato dall’analisi della ragionevolezza delle decisioni, basta osservare che per capovolgere le conclusioni sarebbe sufficiente che il p.m., con mentalità non di magistrato ma di semplice parte, rovesciasse sul Gip una valanga di richieste di misure cautelari, fondate e infondate, ottenendo un numero copioso provvedimenti di rigetto per ricollocare il G.I.P., secondo questa singolare concezione statistica dell’indipendenza del giudice, in posizione intermedia e terza rispetto al pubblico ministero ed al difensore. In realtà, il dato statistico così strumentalmente utilizzato – e del quale, comunque, andrebbero verificate la precisione e la costanza media sul territorio nazionale dimostra, semmai, che i pubblici ministeri fanno un uso moderato ed accorto del potere di richiesta delle misure restrittive della libertà personale e che essi condividono effettivamente, con i giudici, la cultura della giurisdizione.
2.b – Occorre comunque evitare che il giudice, per effetto della unicità della carriera, sia portatore della cultura della “lotta alla criminalità”, propria della funzione del P.M.
E’ questa una posizione che recentemente sta emergendo negli interventi di molti autorevoli avvocati penalisti, alcuni dei quali rivestono compiti di rappresentanza dell’intera categoria: abbandonato il sospetto gratuito e “plebeo” della contiguità tra giudici e p.m., si afferma – cioè – che, per garantire i cittadini, non sia tanto importante il ruolo imparziale del P.M. (o, meglio, il suo operare all’interno della cultura giurisdizionale) quanto evitare che il giudice, anche inconsapevolmente, per effetto della unicità delle carriere, condivida l’orientamento culturale del P.M. e le ragioni della sua azione istituzionale di contrasto dei fenomeni criminali. Sinteticamente, è stato detto da autorevoli rappresentanti delle Camere Penali, “il giudice non deve ispirarsi alla cultura dell’azione”. Ciò, infatti, condurrebbe il giudice al progressivo abbandono della sua necessaria terzietà rispetto alle tesi contrapposte di p.m. ed avvocati. Ma, ancora una volta, all’affermazione non fa seguito alcuna dimostrazione scientifica di tale ipotizzato atteggiamento culturale del giudice italiano
Sorprende, francamente, che l’avvocatura italiana (o parte di essa) trascuri il significato, in termini di cultura e di rafforzamento delle garanzie, dell’attuale posizione ordinamentale del P.M., cui compete anche, e non a caso, “svolgere accertamenti su fatti e circostanze a favore della persona sottoposta ad indagini” (art. 358 cpp). Ma meraviglia ancor di più che si possa immaginare che il giudice, per effetto di una opzione culturale - quella della contrapposizione morale ai poteri criminali di ogni tipo- non appartenente certo in esclusiva ai p.m., ma auspicabilmente condivisa dall’intera società (avvocati compresi), possa esercitare la sua funzione in modo parziale, non distaccato né sereno, comunque compromettendo la parità tra le parti nel processo penale.
Si potrebbe richiamare quanto affermato in precedenza circa la necessità di dimostrare scientificamente tale assunto, ma è chiaro che esso è smentito quotidianamente dall’esperienza di chi pratica le aule giudiziarie, ove i giudici, anche nei processi di consistenti dimensioni ed a carico di un numero elevato di imputati appartenenti alla più agguerrite cosche mafiose, dimostrano di non lasciarsi guidare dalla ragion di Stato, ma dal più rigoroso rispetto delle regole del processo e, in particolare, di quelle attinenti la valutazione delle prove.
2.c – La separazione delle carriere favorisce la maggiore specializzazione del Pubblico Ministero, richiesta dal Codice di Procedura Penale (approvato con DPR 22.9.98 n. 477 ed entrato in vigore un anno dopo)
Questa tesi sembra rivestire apparentemente maggior dignità delle altre, fondata com’è su argomentazioni “tecniche” e su condivisibili esigenze di specializzazione: si sostiene, dunque, che nel contesto venutosi a formare con l’entrata in vigore nell’89 del nuovo codice di procedura penale, sarebbe necessaria una forte caratterizzazione professionale del pubblico ministero, più facilmente perseguibile in un regime di separazione delle carriere. In proposito, pur rammentando che la necessità del parere attitudinale favorevole al passaggio di funzioni venne introdotta nell’ordinamento giudiziario proprio in occasione dell’entrata in vigore di questo codice (l’attuale formulazione dell’art. 190 Ordinamento giudiziario, infatti, è stata introdotta dall’art.29 DPR 22.9.88 n. 449), va detto che l’esigenza di professionalità specifica può essere efficacemente assicurata anche stabilendo un congruo periodo di permanenza del magistrato in quelle funzioni senza che sia necessario vincolarlo a quella esercitata, vietargli di svolgere successivamente l’altra o frapporvi sbarramenti concorsuali: infatti, appartiene ad una visione non poliziesca del ruolo la necessità di assicurare che la formazione culturale del P.M. determini la sua consapevolezza dell’esigenza di raccolta delle prove in funzione del giudizio, prove che abbiano il peso, cioè, di quelle che il giudice ritiene sufficienti per la condanna. Questa cultura accresce la specializzazione e si consegue innanzitutto attraverso l’osmosi delle esperienze professionali tra giudici e pubblici ministeri, come del resto è dimostrato da numerosi casi di eccellenti dirigenti di Procure della Repubblica che vantano pregresse esperienze nel ramo giudicante. Insomma, il percorso professionale più ricco e formativo è quello che moltiplica le esperienze, tanto più in un sistema processuale penale come il nostro che non è di tipo accusatorio puro (sul modello americano, del quale mancano alcune connotazioni essenziali quali il verdetto immotivato, la immediata esecutività della sentenza di primo grado ed il carattere facoltativo dell’azione penale), ma è piuttosto un modello misto ispirato ad istituti e principi mutuati dall’uno e dall’altro dei diversi modelli di sistema accusatorio o inquisitorio. E nel nostro ordinamento, come si è già rilevato, il P.M., anche dopo l’entrata in vigore del nuovo codice di rito, ha conservato un ruolo di organo di giustizia deputato all’applicazione imparziale della legge, conformemente alle previsioni della Costituzione vigente e dell’ordinamento giudiziario (l’art.73 R.D. 30.1.1941 n.12 prevede che il P.M. “veglia all’osservanza delle leggi..”): un ruolo antitetico ed opposto al ruolo di semplice parte, che ha consentito l’effettiva tutela dei diritti dei cittadini e della collettività.
In definitiva appare evidente, anche a chi teorizza una più accentuata specializzazione dei magistrati nelle funzioni rivestite e nei tanti “mestieri” che le caratterizzano, che la separazione delle carriere più o meno accentuate determinerebbe una perversione della specializzazione, frutto di una cultura postmoderna che compromette una visione olistica della giurisdizione: questa, infatti, costantemente considerata come totalità organizzata e non come somma di parti.
Quest’argomento offre lo spunto per contestare un’obiezione che spesso si muove a chi respinge la “separazione delle carriere”. “Ma Giovanni Falcone”, si dice, “era per la separazione delle carriere!”. Anche questa falsità è entrata nell’immaginario collettivo come una verità sgradevole per i magistrati, quale conseguenza di un’informazione addomesticata e di commentatori disattenti o in mala fede. Falcone teorizzava, in realtà, in modo assolutamente condivisibile, la necessità di una più accentuata specializzazione del P.M. nella direzione della P.G. rispetto a quanto era richiesto nel regime vigente prima del codice di rito del ’98; in innumerevoli occasioni, peraltro, aveva spiegato di non condividere la necessità di separare conseguentemente le carriere all’interno della magistratura. Le sue affermazioni, risalenti a prima del ’92 e ad epoca anteriore alle aggressioni subite in questi ultimi dieci anni dalla magistratura, non possono dunque essere strumentalizzate da alcuno.
2.d – La separazione delle carriere è ormai imposta dalla nuova formulazione dell’art.111 Costituzione che prevede la parità delle parti davanti ad un giudice terzo ed imparziale
Sotto vesti apparentemente più nobili, si ripropone, per questa via, la tesi del sospetto sulla parzialità del giudice derivante dall’unicità della carriera con il P.M. ed, a tal fine, si prende spunto dal nuovo secondo comma dell’art. 111, introdotto dalla L. cost. 23.11.99 n.2 (Ogni processo si svolge nel contraddittorio tra le parti, in condizioni di parità, davanti a giudice terzo e imparziale. La legge ne assicura la ragionevole durata) quasi che esso avesse introdotto nell’ordinamento un principio nuovo, mai conosciuto in precedenza, anziché esaurirsi in una norma-manifesto, enunciativa di principi già presenti e praticati nel processo penale, come in quello civile.
Vero è, invece, che, prescindendo in questa sede dalle pur possibili riserve sulla eccessiva rigidità di altre disposizioni della norma costituzionale in questione, essa è stata ed è ormai utilizzata per giustificare ogni tipo di riforma attuata o progettata dall’attuale maggioranza governativa: dalla legge sulle rogatorie a quella di modifica della composizione del Csm, dalla legge Cirami sul legittimo sospetto alla proposta di legge Pittelli (Modifiche al Cpp ed al Cp in attuazione dei principi del giusto processo).
Tralasciando gli slogan suggestivi, dunque, occorre intendersi sul principio della parità tra accusa e difesa: esso è senz’altro condivisibile e persino ovvio se si riferisce al momento processuale del giudizio in genere e del dibattimento in particolare, dove accusa e difesa si devono confrontare su un piano di assoluta parità disponendo di poteri probatori perfettamente equivalenti (art.190 c.p.p.). E sul punto si dovrebbe ricordare, piuttosto, che per effetto di varie riforme si è realizzato – negli ultimi tempi - un notevole potenziamento del ruolo della difesa, al punto che il processo è diventato un percorso ad ostacoli, infarcito di regole che sono insidie formali o cavilli, opponibili a piene mani soprattutto da chi può permettersi difese agguerrite e costose, per allungarne i tempi in modo insopportabile. In ogni caso, appare chiaro che non ha senso scaricare sulla comunanza di carriera fra PM e giudici i risentimenti originati da un presunto assetto non equilibrato del processo: significa eludere i nodi reali del problema. Sono i meccanismi di concreto funzionamento del processo, dunque, che semmai incidono sulla parità tra accusa e difesa, non certo l’unicità della carriera tra giudici e P.M., i cui ruoli e figure professionali restano diversi: un controllore resta controllore e un giudice resta giudice anche se è entrato in magistratura attraverso lo stesso concorso sostenuto dal P.M.
Ragionando diversamente – del resto - si dovrebbe imboccare, per coerenza, una strada senza uscita, nel senso di rescindere anche i rapporti fra giudici di primo grado, giudici d’appello e di cassazione. Perché non si vede come i sospetti derivanti dalla “colleganza” fra PM e giudici non debbano estendersi anche ai giudici dei diversi gradi del processo (In tal senso, più volte, Giancarlo Caselli e numerosi altri giuristi e commentatori).
Ma sulla parità tra P.M. e difensore bisogna dire altro ed avere l’onestà di riconoscere che essa non sussiste se riferita al piano istituzionale che vede i due ruoli completamente disomogenei: il difensore è un privato professionista vincolato dal solo mandato a difendere che lo obbliga a ricercare l’assoluzione o comunque l’esito più conveniente per il proprio assistito (che lo retribuisce) a prescindere dal dato sostanziale della colpevolezza o innocenza; il difensore che nello svolgimento delle indagini difensive ignori volutamente l’esistenza di prove a carico e si adoperi per ottenere l’assoluzione di un assistito di cui gli consti la colpevolezza, non viola alcuna regola deontologica ed anzi ha assolto il proprio mandato nella piena legalità e con successo professionale personale. Niente di tutto questo, fortunatamente, accade per il P.M. che con il giudice condivide l’obbligo di ricerca della verità storica e le cui indagini devono obbedire al criterio della completezza ed oggettività con previsione di rigorosi requisiti di forma stabiliti a pena di invalidità; lo stesso pubblico ministero redigente è un pubblico ufficiale che risponde disciplinarmente e penalmente della veridicità ideologica degli atti da lui documentati; il pubblico ministero non è votato alla formulazione di richieste di condanna ma si determina a richieste assolutorie ogni qualvolta reputi che il quadro probatorio sia carente; formula le proprie requisitorie in piena libertà di scienza e coscienza, e in sede di udienza (in tutte le udienze e non solo in quella dibattimentale) riceve tutela anche rispetto a possibili interferenze da parte del capo dell’Ufficio, ex art.70 comma 4 ordinamento giudiziario (così, letteralmente, Giuseppe Locatelli).
Del significato di queste differenze ontologiche (che non intaccano in alcun modo la moralità del ruolo defensionale, di alta ed irrinunciabile valenza democratica) ciascuno può agevolmente rendersi conto, in modo da comprendere che non scompariranno con un’eventuale separazione delle carriere e che la loro permanenza è positiva per i cittadini e per la collettività.
L’art.111 della Costituzione, dunque, nulla ha a che fare con la separazione delle carriere: la parità tra le parti, cui il secondo comma si riferisce, è quella endoprocessuale, garantita dalle regole del processo e, semmai, da una pari preparazione professionale, generale (e qui è pertinente l’ennesimo auspicio della formazione comune dell’intero ceto dei giuristi) e particolare (concernente, questa, la conoscenza del singolo processo). “Ma non postula affatto una impossibile omogeneità istituzionale tra pubblico ministero e difesa” (Livio Pepino, Giudici e Pubblici Ministeri, in La Magistratura, nn.1/2 2002)
2.e – La separazione delle carriere si impone anche in Italia poiché si tratta dell’assetto ordinamentale esistente o nettamente prevalente negli ordinamenti degli altri Stati a democrazia avanzata, senza che ciò comporti dipendenza dal potere esecutivo.
E’ questa un’affermazione gratuita che, in modo stupefacente, viene utilizzata anche da autorevoli commentatori, meno dai giuristi favorevoli alla separazione, i quali – evidentemente – ne conoscono la natura di mero slogan. Si tratta di una delle tante affermazioni sistematicamente utilizzate “contro” la magistratura che hanno determinato, grazie a martellanti campagne di opinione, convinzioni tanto radicate quanto errate.
E’ opportuno, dunque, dare uno sguardo a ciò che avviene nel resto del mondo per dimostrare la mancanza di fondamento dell’opinione secondo cui l’Italia dovrebbe conformarsi ad un modello, ormai diffuso in Europa e negli Stati Uniti che, pur prevedendo la separazione delle carriere, non determinerebbe affatto, come conseguenza necessaria, la sottomissione del pubblico ministero all’esecutivo.
Sarebbe sufficiente un’analisi anche superficiale della situazione internazionale o degli ordinamenti degli stati più evoluti per verificare che la realtà è abbastanza diversa da quella che spesso sentiamo descrivere in Italia. E’ chiaro, peraltro, che il confronto in questione non è sempre utile solo che si consideri che spesso esiste una radicale differenza tra gli ordinamenti presi in considerazione, frutto di tradizioni giuridiche ed evoluzioni storiche peculiari di ciascun paese : basti pensare al fatto che in Gran Bretagna manca del tutto un pubblico ministero come noi lo intendiamo. Del resto, il prof. Alessandro Pizzorusso, a proposito di indipendenza del pubblico ministero, affermava l’irrilevanza del dato numerico relativo ai paesi che seguono l’una o l’altra impostazione : “se così non fosse, quando l’Inghilterra era l’unico paese in cui esisteva la democrazia parlamentare, si sarebbe potuto invocare l’argomento comparatistico per dimostrare l’opportunità di instaurare la monarchia assoluta, che era la forma allora assolutamente prevalente”. Però possono egualmente trarsi, dalla comparazione ordinamentale, degli spunti generali per la questione che qui interessa, utili a verificare che, nel panorama internazionale, gli ordinamenti che conoscono la separazione delle carriere non costituiscono affatto la maggioranza. Inoltre – ed il dato è molto significativo ai fini che qui interessano - ove essa costituisce la regola accade spesso che chi abbia maturato esperienze professionali di pubblico ministero acquisisce una sorta di titolo preferenziale per accedere alla carriera giudicante: dunque, quell’esperienza viene considerata molto positivamente. Ma, soprattutto, non può non considerarsi che, ove esiste la separazione delle carriere, questa porta con sè la dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo. Ecco, schematicamente, con inevitabile sommarietà, la realtà di alcuni Stati, almeno di quelli i cui livelli di democrazia possono ritenersi omogenei rispetto ai nostri: in Austria, il PM è organizzato come autorità amministrativa, è gerarchicamente strutturato ed è nominato dal Ministro di Giustizia, da cui dipende; in Belgio è nominato dal Re ed il passaggio da una carriera all’altra può avvenire solo per decisione dell’esecutivo, da cui, comunque, riceve direttive di carattere generale; in Germania chi esercita la funzione requirente è un funzionario statale, nominato dall’esecutivo ed ha garanzie diminuite rispetto ai giudici, le carriere di giudici e dei pubblici ministeri, inoltre, sono separate; in Francia, la carriera è unica, è possibile passare da una funzione all’altra, ma il pubblico ministero, pur inserito nell’ordinamento giudiziario, dipende dall’esecutivo ed è sottoposto a forme di controllo di tipo gerarchico-burocratico da parte del Ministro della Giustizia. Peraltro, i problemi che derivano dalla collocazione del p.m. sono oggi, in quel paese, all’attenzione della pubblica opinione e, pur tra resistenze politiche manifestatesi dopo incriminazioni “eccellenti”, si cerca di risolverli ispirandosi al modello italiano. Proprio a causa del forte assoggettamento del pubblico ministero alle scelte dell’esecutivo, infatti, era all’esame delle forze politiche francesi una modifica ordinamentale per renderlo indipendente dal Ministro di Giustizia, ma il progetto è stato bloccato recentemente, non a caso proprio quando, anche in Francia, l’attività della magistratura è arrivata a toccare i nodi vitali del rapporto corruttivo che purtroppo caratterizzava, anche in quel Paese, l’attività della pubblica amministrazione. Questo appare illuminante sulle ragioni che talvolta motivano le scelte o le tendenze del ceto politico, di ogni colore, in materia di giustizia. Tornando alla breve e schematica carrellata su altri ordinamenti, va ricordato che, in Spagna, a carriere costituzionalmente separate, corrisponde una certa dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo; in Gran Bretagna, come si è già detto, non esiste il pubblico ministero nelle forme da noi tradizionalmente conosciute: è la Polizia che ha da sempre l’iniziativa penale e può nominare un avvocato da cui far rappresentare le sue ragioni; in Svizzera le carriere sono separate e non vi si accede mediante concorso, ma l’ esistenza di un ordinamento federale e di diversi ordinamenti statali e, dunque, di regole molto diverse tra loro, impedisce di approfondire il discorso in questa sede; in Olanda, è possibile passare dalla magistratura giudicante all’ufficio del p.m., ma questo è sottoposto alle direttive dell’esecutivo per l’esercizio discrezionale dell’azione penale; il sistema statunitense, pur se notoriamente molto diverso dal nostro, permette comunque riflessioni interessanti sul tema in esame: è un sistema che si divide in un sistema di giustizia federale, ove predomina la nomina da parte del Presidente degli Stati Uniti, ed un sistema di giustizia statale ove predomina il sistema elettorale. Orbene, pur in questa situazione di radicale differenza rispetto al nostro sistema, è possibile verificare la esistenza di una interscambiabilità tra i ruoli di giudici e pubblici ministeri che coinvolge anche l’avvocatura, dalla quale, come si sa, spesso provengono i pubblici ministeri e i giudici.
Dunque, una riflessione può trarsi dall’analisi, pur sommaria, del panorama internazionale: ovunque la carriera del PM sia separata da quella del giudice, non solo il PM stesso dipende dall’esecutivo (con l’unica eccezione del Portogallo, che non può ritenersi, però, così qualificante da ispirare le tendenze del nostro ordinamento e di cui, comunque, si dirà appresso), ma esiste, comunque, un giudice istruttore indipendente. Così, ad es., è in Francia e Spagna ove il ruolo del pubblico ministero italiano è esercitato (non senza qualche occasione di polemica con i pubblici ministeri) dal giudice istruttore, figura soppressa nel nostro sistema: evidentemente, dunque, anche in quegli ordinamenti vi è necessità di un organo investigativo che sia totalmente indipendente dall’esecutivo. Non è il caso, pertanto, di guardare ad altri ordinamenti per trarne indicazioni incoraggianti circa la possibilità di preservare l’indipendenza del P.M. dall’esecutivo in caso di separazione delle carriere.
Piuttosto, per completare la carrellata sul panorama internazionale, è molto importante ricordare come il modello ordinamentale italiano è quello verso cui tende la comunità europea; vanno citate due importanti risoluzioni: la prima è quella del Parlamento europeo che ha approvato il 16 marzo 2000, a Strasburgo, l’annuale “Relazione sul rispetto dei diritti dell’uomo nell’Unione Europea”, in cui, al paragrafo 38, figura l’invito rivolto agli Stati membri “a garantire l’indipendenza dei giudici e dei Tribunali dall’esecutivo” e ad evitare ogni interferenza politica nella nomina dei giudici e tribunali. Orbene, intanto la formula utilizzata (“Giudici e Tribunali”) è più ampia dell’usuale; ma è pure importante rilevare che l’intero paragrafo è stato approvato dall’assemblea come emendamento integralmente sostitutivo del testo proposto in Commissione dall’on. Fiori del gruppo di “Forza Italia” secondo cui l’Italia avrebbe dovuto garantire l’imparzialità dei giudici separando le carriere dei giudici e dei pubblici ministeri. La bocciatura di questa proposta, evidentemente, riveste particolare rilievo per il nostro Paese. La seconda importante affermazione è quella contenuta nel progetto di raccomandazione sul “ruolo del pubblico ministero nel sistema di giustizia penale” predisposto in vista della 49^ assemblea plenaria del 26/30 giugno 2000 della Commissione del Consiglio d’Europa per i problemi legati alla criminalità: vi si prevede che “gli Stati, ove il loro ordinamento giudiziario lo consenta, adotteranno misure per consentire alla stessa persona di svolgere successivamente le funzioni di pubblico ministero e quindi di giudice e viceversa” . Si prosegue, nella relazione, affermando che tale auspicio trae origine “non solo dalla natura complementare delle due funzioni, ma anche dalla similarità delle due professioni” e si aggiunge che tale possibilità “rappresenta una ulteriore garanzia per il pubblico ministero”. Ecco perché è possibile affermare che la comunità internazionale viaggia proprio verso quel modello ordinamentale che, invece, in Italia viene ciclicamente messo in discussione. Quasi mai per buone ragioni.
2.e/1 – La particolarità del Portogallo
La schematica analisi che precede dovrebbe, da sé, convincere dell’impossibilità di importare un sistema ordinamentale di separazione delle carriere senza determinare, conseguentemente, la sottoposizione del P.M. all’esecutivo. Ma, per esorcizzare questa ipotesi, impresentabile persino per la pubblica opinione più disattenta, qualcuno si affanna a spiegare che, in realtà, nessuno pensa, in Italia, ad un pubblico ministero sottoposto all’esecutivo : non sarebbe comprensibile, dunque, la reattività della magistratura rispetto al tema della separazione delle carriere. Si vedrà appresso che, per la verità, si sta già autorevolmente “lavorando” all’ipotesi di un controllo dell’esecutivo sull’esercizio dell’azione penale. Ma qui si vuol dimostrare altro: che dalla separazione delle carriere, cioè, scaturirerebbe comunque un’involuzione della cultura giurisdizionale del P.M., pericolosa – per l’effettiva attuazione dei principio di eguaglianza dei cittadini di fronte alla legge e per la tutela delle loro garanzie – almeno quanto quella derivante dalla sottoposizione del P.M. all’esecutivo.
Importanti elementi di riflessione possono trarsi dall’esperienza ordinamentale portoghese: in Portogallo, sin dalla rivoluzione dei garofani (1974), vige un sistema di separazione delle carriere tra giudicanti e requirenti, senza sottoposizione di questi al potere esecutivo. Orbene, questo sistema ha determinato esattamente, nel corso della sua quasi trentennale applicazione, quel progressivo affievolimento della cultura giurisdizionale dei p.m., che è l’oggetto delle preoccupazioni della magistratura italiana. Ne ha parlato recentemente in Italia un esperto magistrato portoghese (Antonio Cluny, dirigente di Medel: intervento nel corso del congresso di Magistratura Democratica, Roma, 23/26.1.2003), il quale, ricordata la molteplicità delle funzioni attribuite al P.M., anche in quel Paese, a difesa della legalità ed a tutela del principio di eguaglianza, ha spiegato che attorno alla fine degli anni ’80 – inizio anni ’90, proprio quando l’ufficio del P.M. ha iniziato a sviluppare un’attività giudiziaria indipendente e capace di mettere in crisi la tradizionale impunità del potere economico e politico, si sono levate “autorevoli” voci a mettere in dubbio la legittimità democratica dell’ufficio del fiscal (il nostro P.M.), la diversa natura di quest’organo rispetto al potere giudiziario, la possibilità dei titolari di dare direttive alla polizia criminale e la stessa possibilità di iniziativa autonoma nel promuovimento dell’azione penale. Il dibattito è ancora in corso e, come è stato detto, è forte il rischio che possa realizzarsi un modello di privatizzazione dell’indagine, del processo penale e della giustizia penale, auspicato dalla parte più conservatrice dell’opinione pubblica e da una parte dell’avvocatura. Ma la separazione delle carriere, pur in un regime di indipendenza dall’esecutivo del P.M., ha prodotto in Portogallo una divisione nella cultura professionale dei giudici e dei magistrati del fiscal. I pubblici ministeri (ancora Antonio Cluny) hanno sviluppato una tendenza pratica a valorizzare eccessivamente gli obiettivi della sicurezza a detrimento dei valori della giustizia, mentre i giudici hanno sviluppato un’attitudine formalista che li conduce spesso ad assumere una posizione di semplici arbitri, anche quando i casi loro sottoposti esigerebbero un loro diretto intervento ed impegno per il raggiungimento degli obiettivi di giustizia. E’ stata vanificata, dunque, l’originaria intenzione del legislatore di rafforzare le garanzie dei cittadini di fronte alla legge e si è compromessa l’efficacia del processo penale. Parallelamente, infine, si è sviluppata e si è progressivamente acuita una tendenza al pregiudizio corporativo che ha innescato pericolose tensioni tra giudici, magistrati del fiscal e avvocati.
Ecco dimostrate, dunque, la perversione della specializzazione, la frammentazione dei mestieri, la perdita della visione globale e coordinata della giurisdizione.
3. Le ragioni a favore dell’unicità della carriera
Nell’esporre le ragioni “contro”, si sono in buona parte illustrate, attraverso la loro confutazione, quelle che suggeriscono di mantenere fermo l’attuale assetto ordinamentale delle carriere dei magistrati, fatta salva la possibilità di introdurre correttivi in tema di incompatibilità circondariale di cui appresso si dirà.
3.1 – La cultura giurisdizionale
Si è già più volte parlato, fin qui, di cultura giurisdizionale, ma vale la pena di approfondire il tema anche perché – è inutile negarlo – a molti cittadini, e talvolta anche agli addetti ai lavori, l’espressione appare spesso incomprensibile, quasi si trattasse di innalzare ad arte una cortina fumogena per celare supposti privilegi corporativi.
E’ quasi d’obbligo, innanzitutto, ripetere alcuni rilievi nient’affatto originali: l’Associazione Nazionale Magistrati, ad esempio, “ritiene che l’osmosi tra le diverse funzioni di giudice e di Pm, con la possibilità di passaggio dei magistrati dall’una all’altra, nell’ambito di un’unica carriera, mantenendo il P.M. nella cultura della giurisdizione, assicuri la finalizzazione esclusiva dell’attività degli uffici del pubblico ministero alla ricerca della verità” (Così in Proposte di riforma dell’ANM in tema di ordinamento giudiziario” , in La Magistratura, nn.1/2 2002). In altre parole, la possibilità di interscambio di ruolo significa innanzitutto l’acquisizione di una cultura che conduce il pubblico ministero - o dovrebbe condurlo - a valutare la fondatezza, la portata ed il valore degli elementi probatori che raccoglie non in funzione dell’immediato risultato o della cd. “brillante operazione” cui tengono evidentemente molto di più le forze di polizia, ma in funzione della loro valenza rispetto alla fase del giudizio. I canoni della valutazione della prova, cioè, devono unire pubblici ministeri e giudici, dando vita ad un sistema più garantito per i cittadini.
Del resto, nell’ambito del procedimento penale, il pubblico ministero svolge un ruolo di controllo sulla legalità dell’operato della polizia giudiziaria che ne rende palese la natura di organo di giustizia vicino piuttosto alla figura del giudice che a quella di parte deputata a sostenere in sede processuale le tesi della polizia, come avviene negli ordinamenti veramente ispirati al modello accusatorio: basti pensare agli interventi del P.M. in tema di liberazione immediata della persona arrestata o fermata fuori dai casi previsti dalla legge (art.389 c.p.p.), oppure alla attività di convalida o non convalida delle perquisizioni o dei sequestri operati dalla polizia giudiziaria, alla preliminare selezione dei casi in cui è opportuno trasmettere al Gip le richieste di intercettazioni telefoniche sollecitate dalla polizia. Si tratta all’evidenza di interventi nei quali il P.M. non svolge un ruolo repressivo ma al contrario un ruolo istituzionale di garanzia e di tutela dei diritti di libertà e dei diritti patrimoniali del cittadino nei confronti di provvedimenti limitativi adottati dagli organi di polizia di cui, diversamente, verrebbero incentivate prassi criticabili, già oggi molto diffuse. Un ruolo che il PM non potrebbe esercitare efficacemente senza essere inserito, appunto, nella cultura della giurisdizione: un inserimento tanto più saldo quanto più vi sia possibilità per chi sia stato giudice di diventare PM e viceversa. Se questo legame con l’ordine giudiziario si attenua o viene reciso, si apre la strada alla deriva del PM verso culture, deontologie e prassi ben diverse da quelle del giudice: “un corpo separato di pubblici ministeri è destinato inevitabilmente a perdere la propria indipendenza dall’esecutivo. Per la decisiva ragione che non è democraticamente ammissibile l’irresponsabilità politica di un apparato di funzionari pubblici numericamente ridotto (poco più di 1900 unità), altamente specializzato, con ampie garanzie di status, preposto in via esclusiva all’esercizio dell’azione penale: questo potere o è compensato dalla polverizzazione dei suoi titolari, dalla loro ampia rotazione nel tempo e dal loro ancoraggio alla giurisdizione (pur nelle peculiarità che li caratterizzano) oppure deve essere riportato alla sfera della responsabilità politica”. Lo ha affermato efficacemente e lucidamente anche Alessandro Pizzorusso: “Nel dibattito invelenito che è attualmente in corso gli argomenti sembrano avere perso ogni capacità di persuasione e la rivendicazione della separazione delle carriere viene agitata come una clava, senza tener conto nemmeno del fatto che un pubblico ministero assolutamente indipendente e rigorosamente gerarchizzato (con la polizia si suoi ordini) costituirebbe il potere dello Stato più forte che si sia mai avuto in alcun ordinamento costituzionale dell’epoca contemporanea (e infatti non lo si è mai avuto in alcun paese)”.
L’unica alternativa possibile, per un PM divenuto altro dalla giurisdizione, sarebbe, dunque, di finire alle dipendenze (che significa agli ordini) del Governo: e ciò per ragionamento logico ed istituzionale, non certo in base ad arbitrari processi alle intenzioni di questa o quella maggioranza politica contingente.
Davvero un’ultima annotazione si impone sul punto : la impennata di domande di trasferimenti di pubblici ministeri ad uffici giudicanti, alla vigilia del referendum del 2000 o in occasione dei rinnovati e ciclici propositi dell’attuale maggioranza politica di riformare il regime delle carriere, si spiega con la preoccupazione che evidentemente essi nutrono di vedersi precluso l’eventuale accesso alla carriera giudicante e sottoposti alle direttive dell’esecutivo: ciò significa che la cd. “cultura giurisdizionale” e l’orgoglio della propria indipendenza, costituzionalmente garantita, sono valori che vivono profondamente nella coscienza dei magistrati italiani e che andrebbero rafforzati, piuttosto che mortificati.
3.2 – Il dato statistico
E’ opportuno ragionare ancora attorno all’appena citato dato statistico: si parla molto spesso, cioè, del rischio di inquinamento della funzione giudicante che sarebbe determinato dal continuo passaggio dei magistrati da una carriera all’altra; in realtà, anche a prescindere dalla superficiale prospettazione di questo timore (si rimanda a quanto sin qui specificato), quasi mai si considerano i dati statistici di cui pure si dispone e che il CSM inviò anche al Comitato promotore del referendum. Tra il ’93 ed il ’99, infatti, la percentuale di giudici trasferitisi a domanda agli uffici del P.M. risulta sostanzialmente costante, oscillando tra un minimo del 6% ed un massimo dell’8,50% ; anche nel caso di trasferimenti in direzione opposta, le percentuali nello stesso periodo sono costanti, oscillando tra il 10% e il 17%. Quali riflessioni trarre da questi dati? Da un lato, evidentemente, che quella “trasmigrazione”, secondo alcuni “inquinante” culturalmente e professionalmente, non è poi così massiccia come si crede (salvo le impennate causate dagli annunci dell’imminenza della riforma); dall’altro, che la ragione di questa contenuta tendenza alla preservazione della funzione esercitata sta forse nel fatto che si va affermando quell’esigenza di specializzazione che molti indicando tra i possibili e più efficaci strumenti di risoluzione di conflitti e tensioni.
3.3 - Unica formazione e unico CSM
Ecco, dunque, che la magistratura, anche grazie ai principi contenuti nelle circolari del CSM, è in grado – da sé – di amministrare con razionale equilibrio i frutti derivanti, da un lato dalla pluralità delle esperienze professionali e, dall’altro, dalla specializzazione nell’esercizio di determinate funzioni. Ma, come s’è detto in precedenza, la specializzazione ha senso all’interno di una visione totale della giurisdizione: l’appartenenza ad un’unica carriera, dunque, pur nella diversità delle funzioni esercitate, giustifica un percorso professionale unico di formazione e di aggiornamento professionale e giustifica l’esistenza di un unico Consiglio Superiore della Magistratura. E’ evidente che formazione comune ed un unico CSM, dovendosi occupare di problemi definitivamente diversi, non avrebbero ragione di essere in presenza di carriere separate.
3.4 - Condizionamento del giudice: conseguenza certa della separazione delle carriere
Va da sé che la dipendenza del pubblico ministero dall’esecutivo e/o l’involuzione culturale che lo colpirebbe in caso di separazione delle carriere finirebbero con il condizionare il giudice, in quanto al suo esame sarebbero sottoposti unicamente gli affari trattati da un pubblico ministero che, inevitabilmente e come avviene in altri ordinamenti, dovrebbe attenersi alle direttive ministeriali in materia o che potrebbe essere condizionato da orientamenti culturali di natura prevalentemente securitaria. Si comprende, dunque, come anche la funzione giurisdizionale in senso stretto ne risulterebbe gravemente vulnerata
3.5 – La tendenza internazionale alla creazione di organismi inquirenti e giudicanti sovranazionali richiede la forte difesa degli assetti ordinamentali oggi esistenti in Italia
E’ noto che negli ultimi anni sono stati compiuti in Europa passi concreti verso la realizzazione di un’effettiva rete di cooperazione giudiziaria nel campo criminale. Sono stati costituiti organismi di polizia, amministrativi e para-giudiziari di indubbia importanza (Europol, Rete giudiziaria europea e relativi “punti di contatto” tra le autorità giudiziarie degli Stati membri dell’Unione, magistrati di collegamento, Olaf nel settore antifrode, Eurojust, Corte Penale internazionale permanente) ed è noto che si discute della creazione di un vero e proprio ufficio del P.M. europeo (competente solo su alcuni tipi di reato) e del Corpus Juris che dovrebbe dar vita ad un diritto penale sostanziale minimo, comune a tutti gli Stati membri.
In questa prospettiva, e mentre i lavori sono ancora in corso, si pone in tutta la sua evidenza, non solo per l’Italia, il problema della garanzia di indipendenza che dovrà essere riconosciuta ai magistrati che, a vario livello, esercitano ed eserciteranno la funzione di P.M. in tutti gli organismi giudiziari sovranazionali ed internazionali che sono stati rapidamente (ed un po’ tumultuosamente) creati nel corso dell’ultimo decennio (Così Ignazio Juan Patrone, attualmente presidente di Medel).
Orbene, valutando il “senso di marcia” della evoluzione in atto, i poteri di ingerenza nelle funzioni giudiziarie di indagine che inevitabilmente saranno attribuiti agli organismi internazionali, i loro compiti di coordinamento, di impulso ed iniziativa rispetto agli organi inquirenti nazionali ed in settori criminali di indubbio ed oggettivo rilievo, appare evidente che la preservazione dell’attuale assetto ordinamentale potrà garantire la presenza in quegli organismi di magistrati italiani indipendenti dall’esecutivo ed animati da quella cultura giurisdizionale di cui si è fin qui più volte parlato. Una cultura che l’Italia dovrebbe preoccuparsi di diffondere nel resto di Europa, invece di disperdere.
4. – Rapporti tra potere politico e magistratura. Il vero senso delle riforme “rancorose”
In ogni parte del mondo, come si sa, si registrano contrasti tra giustizia, politica, economia, ma in nessuna parte del mondo il livello di tali contrasti ha portato ad una situazione di vero pericolo per l’indipendenza della magistratura ed alla violazione del principio della separazione dei poteri che è alla base di ogni ordinamento democratico. Si ripetono le accuse di parzialità e mala fede rivolte ai magistrati anche dal Presidente del Consiglio, da Ministri e sottosegretari e tutti vi sono coinvolti : P.M. e giudici penali, giudici del lavoro e giudici minorili, l’ultimo degli uditori giudiziari e le Sezioni Unite della Corte di Cassazione. La crisi della divisione dei poteri si è mostrata in tutta la sua pericolosità in Senato, il 5 dicembre 2001, allorchè è stata approvata, a maggioranza, una mozione in cui si “denunciavano” riunioni clandestine tra giudici e PM per trovare il modo di violare la legge sulle rogatorie e si bocciavano senza appello l’interpretazione della medesima adottata dai collegi giudicanti milanesi (indicando loro quella che sarebbe stata corretta) e le decisioni da questi assunte in tema di impedimenti a comparire in giudizio di imputati parlamentari. Nello stesso senso, peraltro, vanno le reazioni del mondo politico successive a sentenze sgradite. Significativamente, dopo una recente decisione delle Sezioni unite della Corte di Cassazione, sgradita ad imputati eccellenti ed ai loro difensori (in buona parte parlamentari), si è riacceso il dibattito sulle riforme ordinamentali, prima tra tutte quella sulla separazione delle carriere : questa è stata presentata, per l’ennesima volta, come una riforma da attuarsi rapidamente in nome dell’efficienza e delle garanzie per i cittadini. In realtà essa nulla ha a che fare con l’una e con le altre e si iscrive, invece, all’interno di un pacchetto di riforme “rancorose”(efficace definizione del Vice Presidente del Csm, on.le prof. Virginio Rognoni) e punitive ed ha un solo fine reale : il depotenziamento del ruolo del P.M. e la sua sottoposizione al potere esecutivo.
L’1.2.03, l’on.le G. Pecorella, Presidente della Commissione Giustizia della Camera, ha lanciato la proposta di far eleggere i capi delle Procure da organismi politici (Parlamento e Consigli Regionali) ed il Ministro della Giustizia ha rilanciato due giorni dopo, ipotizzando concorsi separati per l’accesso alle due carriere e concorsi ulteriori per il passaggio dall’una all’altra; già da tempo, inoltre, si discute dell’attribuzione al Parlamento, su proposta del Ministro della Giustizia, delle scelte delle priorità investigative (il che sarebbe sufficiente di per sé a vanificare il principio di obbligatorietà dell’azione penale ed a depotenziare il ruolo del P.M., senza neppure necessità di sottoporlo al controllo dell’esecutivo), nonché dello sganciamento dell'attività della P.G. dalla direzione e dal controllo del P.M. (di cui s’è già visto un significativo anticipo nel D.L. 18.10.2001, n. 374, conv. in L. 15.12.01 n.438, Disposizioni urgenti per contrastare il terrorismo internazionale).
Proprio quest’ultima prospettiva appare allarmante almeno quanto quella dell’allontanamento ordinamentale e culturale del P.M. dal giudice: sottrarre ai Pubblici Ministeri la direzione ed il coordinamento della Polizia Giudiziaria non solo farebbe rivivere il regime antecedente a quello introdotto dal Codice di rito dell’88, ma depotenzierebbe l’organo dell’accusa e, riducendolo al rango di funzionario amministrativo, comprometterebbe inevitabilmente il livello delle garanzia riconosciute ai cittadini.
Qualcuno sembra minimizzare il livello di queste preoccupazioni, quasi esse fossero, a loro volta, il frutto di pregiudiziale sfiducia nella classe politica: bisogna analizzare, in realtà, la storia di questo Paese ed, in particolare, la tradizione dei rapporti tra politica e magistratura in Italia. Questi anni non ci hanno consegnato una storia tranquillizzante e ciò - è bene chiarirlo - indipendentemente dal colore dei governi che si sono succeduti: in Italia è difficile praticare e perfino immaginare un rapporto sereno tra politica e magistratura, ispirato, come avviene in altri ordinamenti evidentemente caratterizzati da un più elevato senso dello stato, al rispetto della funzione giurisdizionale. Basti pensare alla possibilità che in ogni sistema è data alla magistratura di indagare e processare capi di governo e uomini potenti, senza che alcuno, pur difendendosi, accusi i giudici di partigianeria politica, tenti di influenzare la pubblica opinione attraverso i mezzi d’informazione che controlla e promuova l’approvazione di leggi vantaggiose per sè.
Ed è pure singolare osservare che, proprio in un periodo in cui si alimentano polemiche pretestuose contro la magistratura tacciata di esercitare l’azione penale per fini politici, il rimedio proposto non consiste in una più accentuata distinzione della sfera politica rispetto alle questioni di giustizia, ma in proposte complessivamente dirette ad aumentare l’incidenza della “politica” nella sfera di amministrazione della giustizia : prima tra tutte la separazione formale o di fatto delle carriere, con conseguente ed inevitabile spostamento del p.m. verso la sfera dell’esecutivo.
Nell’attualità ed alla luce delle incerte notizie che filtrano dal dibattito politico (incertezza derivante anche da una singolare circostanza: al di fuori del Parlamento, delle Commissioni Ministeriali, dell’Ufficio Legislativo del Ministero della Giustizia, l’elaborazione dell’ennesimo progetto di riforma ordinamentale è stata ora affidata ad un Direttorio politico, composto da “quattro saggi” - il Ministro della Giustizia, un suo sottosegretario e due parlamentari appartenenti rispettivamente ai due maggiori partiti della coalizione di Governo- che non ha ancora ultimato i suoi lavori), sembra prevalere l’ipotesi di modifica dell’art.5 del già noto d.d.l. sull'ordinamento giudiziario (approvato dal Consiglio dei Ministri il 14.3.2002), nel senso di prevedere due concorsi distinti e separati per l’accesso, rispettivamente, alle funzioni giudicanti e requirenti o, in alternativa, un concorso unico per l’accesso in magistratura con successivi filtri e concorsi per il passaggio dall’una all’altra funzione, ma con impossibilità di svolgere una funzione diversa nel distretto di provenienza (la cd. incompatibilità distrettuale) : prende corpo, così, la separazione delle carriere tante volte agitata come arma minacciosa nei confronti di una magistratura recalcitrante ed attestata senza compromessi a difesa della propria indipendenza. Si tratta, peraltro, di una proposta di dubbia costituzionalità quanto al doppio concorso, stante la lettera dell'art. 106 Costituzione che parla di "concorso", da intendersi come unico, ed in contrasto con l' art. 105 Costituzione che attribuisce solo al CSM – e non, dunque, ad un’eventuale commissione esaminatrice all’interno di un concorso ad hoc - il compito di valutare i giudici ed i P.M. anche in caso di trasferimento ad altro ufficio, con contestuale mutamento di funzioni. La modifica ordinamentale, se approvata, darebbe luogo, peraltro, ad innumerevoli rigidità nelle assegnazioni dei magistrati che mortificherebbero le loro reali capacità ed attitudini. Lo scopo che viene perseguito non è quello di dar vita ad un ordinamento giudiziario moderno ed efficiente, ma quello di pervenire al controllo politico sul P.M. (così anche Claudio Castelli, segretario generale di MD)
5. La posizione della magistratura
Le eventuali modifiche dell’attuale assetto della carriera dei magistrati, in tema di ulteriore distinzione delle funzioni giudicanti e requirenti, potrebbero ruotare attorno alla necessità di una maggiore specializzazione nell’uno o nell’altro ruolo ed a quella di evitare che il passaggio di funzioni in ambito territorialmente ristretto possa offuscare l’esercizio della nuova funzione. Parole chiare e condivisibili sono state enunciate, in proposito, dall’ANM: “Occorre garantire una migliore specializzazione ed un più elevato livello di professionalità specifica nei magistrati chiamati ad adempiere all’uno o all’altro ruolo e prevedere un opportuno momento di valutazione nel passaggio dall’esercizio di una funzione all’altra (ndr.: è ben possibile, dunque, ipotizzare la frequenza di corsi di formazione e riconversione in caso di mutamento di funzione e la formulazione di un parere ex art. 190 ordinamento giudiziario più articolato e preciso rispetto a quanto oggi avviene, sulla base di parametri che potrebbero essere fissati anche in sede di normativa secondaria dal CSM). Occorre inoltre adottare le misure necessarie per assicurare che tale passaggio non avvenga con modalità ed in un contesto tale da poter anche solo ingenerare il dubbio che possa derivarne un’influenza negativa sull’esercizio della nuova funzione. A tale fine (a parte la considerazione che l’incompatibilità non ha ragione di essere nelle ipotesi in cui dalle funzioni requirenti si acceda alle funzioni giudicanti civili) ci sembra necessario e sufficiente un meccanismo costruito attorno alla incompatibilità a livello di circondario (ndr.: il magistrato potrebbe essere adibito a nuove funzioni, dunque, solo ove intervenisse il contemporaneo trasferimento ad altro Tribunale, salvo il caso di trasferimento di un PM alla funzione giudicante nel ramo civile. Resterebbe da determinare il tempo di durata minima nella permanenza in un diverso Tribunale, ma non vi è ragione per determinarlo in misura superiore al periodo di legittimazione minima - previsto dalle norme dell’ordinamento giudiziario - che ogni magistrato deve avere maturato in un certo ufficio, prima di potere richiedere il trasferimento ad altra sede). In conclusione, una volta adottata, opportunamente, la opzione per la cd. distinzione delle funzioni, occorre evitare che la concreta disciplina (anche per la durata massima della incompatibilità) possa dar luogo in realtà ad una sostanziale vera e propria separazione delle carriere” . Queste condivise posizioni sono state espresse ufficialmente dall’ANM (Proposte di riforma dell’ANM in tema di ordinamento giudiziario” , in La Magistratura, nn.1/2 2002) che, peraltro, che per evitare equivoci semantici attorno al binomio “separazione delle carriere” – “separazione delle funzioni” potrebbe opportunamente tralasciare ogni riferimento lessicale alla “separazione” o “distinzione delle funzioni”, parlando più semplicemente di “incompatibilità circondariale”. Si eviterebbe, così, di dar luogo a quei dubbi che anche gli interventi di forze politiche contrarie alla separazione delle carriere hanno alimentato: ancora nell’ultimo documento programmatico dei D.S. si propone la “Netta separazione delle funzioni tra P.M. e giudici”, dove la novità rispetto agli equivoci del passato sta nell’aggettivo “netta” di cui non è ancora chiaro il senso giuridico.
Si può convenire, dunque, sull’inopportunità che chi è stato pubblico ministero compaia il giorno dopo come giudice nello stesso Tribunale avanti al quale ha esercitato per anni funzioni requirenti (e viceversa) : lo stesso Consiglio Superiore della Magistratura, del resto, in una sua risoluzione del 24.2.93, si era espresso in favore di un sistema di incompatibilità a livello circondariale in caso di mutamento di funzioni in uffici di primo grado (Livio Pepino, articolo citato). Un sistema di incompatibilità più esteso a livello territoriale, ad esempio in ambito distrettuale, finirebbe con l’introdurre sbarramenti eccessivamente rigidi e con il pregiudicare l’utile osmosi delle esperienze professionali dei magistrati. Vittorio Grevi (Corriere della Sera, 21.2.03), a dire il vero, afferma l’utilità della introduzione di un rigido divieto anche al passaggio dei magistrati giudicanti dal Tribunale alla Corte d’Appello dello stesso Distretto. Questa riflessione, anche per l’autorevolezza della fonte e per la sua specchiata posizione a difesa della indipendenza della magistratura, ben merita di essere ulteriormente approfondita.
L’attuale situazione dei rapporti tra politica e magistratura induce a temere, come è stato correttamente osservato (Giovanni Galloni, già Vice Presidente del CSM, Il Popolo, 12.11.02), che l’attuale maggioranza “riduca la questione della giustizia ad una semplice affermazione di potere dei politici nei confronti dei magistrati. In tal modo essa va verso una violazione dei principi costituzionali dell’autonomia e della indipendenza della Magistratura”. E’ dunque possibile che nei prossimi mesi il Governo proceda a scelte irrazionali e punitive nei confronti della Magistratura, prima tra tutte quella della separazione delle carriere. Forse, dopo le importanti e recenti prese di posizione del mondo accademico, solo un’assunzione di piena consapevolezza da parte dell’avvocatura della centralità del problema e della sua pertinenza all’esclusivo tema delle garanzie dei cittadini e della loro eguaglianza di fronte alla legge, potrà evitare una deriva che appare pericolosa per la qualità della democrazia possibile in questo Paese: è da respingere, infatti, l’assunto – che taluni strumentalmente propagano – secondo cui l’atteggiamento della magistratura, fermamente contrario alla cd. separazione delle carriere, sia dettata in qualche modo da interessi corporativi. Non è incoraggiante, a dire il vero, il recentissimo documento programmatico della Unione della Camere Penali Italiane in tema di separazione delle carriere in cui, insieme alla condivisibile proposta di istituzione di una Scuola di Formazione Comune per l’accesso alle professioni giudiziarie, si propugnano i due concorsi separati per l’accesso alle due funzioni, la partecipazione al relativo concorso o esame per il passaggio da una funzione all’altra e la separazione del CSM in due Sezioni, l’una per la funzione giudicante e l’altra per la funzione requirente. Ma il dialogo deve continuare : solo l’azione compatta del ceto dei giuristi, infatti, in quanto tecnicamente qualificato, potrà infatti invertire la tendenza e sollecitare le preoccupazioni di quanti, in ogni schieramento politico, hanno a cuore il principio di legalità.