Oggi ho assistito, da spettatore, ad uno dei più bei convegni cui mi sia mai capitato di assistere.
di Armando SPATARO
Non lo dico certo perché è stato organizzato a Milano
dal Movimento per la Giustizia (pur se un grazie speciale va a chi lo ha
pensato ed organizzato: Angelo Mambriani, Marcello Marinari e Caterina
Interlandi), ma perché è stato un convegno colto, arricchente ed emozionante.
Si intitolava "La Magistratura italiana tra associazionismo e potere
politico dall'epoca liberale al fascismo". Relatori erano personaggi del
calibro di Riccardo Chieppa (Presidente emerito della Corte Costituzionale),
Guido Neppi Modona (Vice Presidente emerito della Corte Costituzionale e
docente all'Università di Torino), Fernando Venturini (Consigliere parlamentare
ed autore del primo vero studio sulla storia della Magistratura
italiana), Sonia Stefanizzi (Sociologa all'Università Bicocca di Milano), i
colleghi Edmondo Bruti Liberati (Proc. Aggiunto a Milano e Presidente dell'ANM
negli anni più difficili della nostra storia più recente) e Francesco Antonio
Genovese (Giudice della Corte di Cassazione), entrambi anch'essi autori di
fondamentali studi sulla storia dell'ANM.
Perché un convegno emozionante e colto? Provo a riassumerne alcune ragioni e ad
offrirvi in lettura uno storico documento.
Attraverso le parole di Venturini, Chieppa, Neppi Modona, Bruti e Genovese è
stata ripercorsa minuziosamente ed in modo avvincente la storia del nostro
associazionismo; è stato ricordato, con citazione di nomi e fatti, che durante
gli anni bui del fascismo molti magistrati si rifiutarono di giurare fedeltà al
fascismo, furono incriminati, condannati e costretti all'esilio mentre le loro
famiglie venivano perseguitate : furono rimossi dal loro lavoro e dovettero
attendere la fine del fascismo per essere riabilitati.. Toccante è stata la
testimonianza di una collega: suo padre magistrato era stato costretto a
fuggire in Svizzera perché condannato a morte e la sua famiglia, durante la
fuga, fu anche colpita dal piombo dei fascisti: un bambino di 8 anni morì e la
collega rimase per questo claudicante. Ma molti altri, giurarono fedeltà
al fascismo, fecero carriera, vi fu chi presiedette il Tribunale della Razza
diventando dopo la guerra Primo Presidente della Corte di Cassazione e poi
anche Presidente della Corte Costituzionale. Neppi ha minuziosamente passato in
rassegna i casi di condanne disciplinari e penali di quegli anni e ha ricordato
parole e teorizzazioni del Ministro Grandi : nella relazione illustrativa al
R.D. 30.1.41 n. 12 (che disciplinava l'ordinamento giudiziario secondo secondo
finalità di fascistizzazione della magistratura), egli affermava : "nel
regolare lo stato giuridico dei magistrati, ho naturalmente respinto il
principio del così detto autogoverno della magistratura, incompatibile con il concetto
di Stato Fascista.". Egli riteneva infatti "inammissibile che nello
Stato esistano organi indipendenti dallo Stato medesimo, o autarchie, o caste
sottratte al potere sovrano unitario, supremo regolatore di ogni pubblica
funzione". Né la tutela della indipendenza dei giudici richiedeva, secondo
Grandi, che "la Giurisdizione costituisca un potere autonomo nello Stato,
dovendo anch'essa informare la sua attività alle direttive generali segnate dal
Governo per l'esercizio di ogni altra pubblica funzione"
Ancora Neppi, con Bruti, ha ricordato che l'associazionismo aveva ed ha
un significato fondamentale: rende il singolo magistrato meno esposto sul piano
politico quando ha da manifestare - spesso doverosamente - il suo pensiero, la
sua attenzione ai problemi sociali.
Ma, allora come oggi, l'associazionismo (come ha anche ricordato la sociologa
Stefanizzi) ha due anime: quella corporativa, che immagina i giudici come casta
autoreferenziale chiusa ed operante in una specie di fortezza; e quella
aperta al dialogo sociale, al confronto con i giuristi di altra
estrazione e, in generale, con la politica. Di cui pure rispetta le competenze,
senza per questo rinunciare alla sua funzione propositiva e di critica.
Genovese ha pure ricordato tante storie, comprese quelle di illustri giuristi
che rischiarono di compromettersi con il fascismo o che, più probabilmente, con
il fascismo scesero a patti.
Tutti hanno anche ricordato perché l'Associazione rifiutò di chiamarsi
"sindacato", pur svolgendo ovviamente anche un ruolo sindacale:
perché suo compito era e deve essere, innanzitutto, la difesa della
indipendenza assoluta della Magistratura.
Bruti ha pure rammentato come l'Associazionismo della magistratura italiana
presenti una peculiare caratteristica che la distingue dalle analoghe
associazioni di altri paesi: pur nella diversità dell'approccio culturale e
nella pluralità delle sue componenti, l'Associazione magistrati è una ed una
sola .
E ha voluto, infine, ricordare come, nell'Aula Magna dove oggi pomeriggio ci
siamo trovati, l'ANM milanese organizzò nel 1972 una manifestazione di protesta
dopo il trasferimento a Catanzaro, per legittimo sospetto, del
processo per la strage di Piazza Fontana. Tutti i dirigenti milanesi furono
sottoposti a procedimento disciplinare: il segretario e l'anima della protesta
era Guido GALLI.
Ma voglio chiudere citando il Presidente emerito Chieppa, non tanto per il suo
altissimo contributo (la cui qualità potete immaginare) quanto per il
toccante ricordo di suo padre Vincenzo, uno dei giovani fondatori
dell'Associaziane Generale tra i Magistrati d'Italia (così si chiamò la nostra
Associazione alla sua costituzione).
L'Associazione fu fondata il 13.6.1909 a Milano da 44 magistrati, dopo un lungo
dibattito scaturito dal cd. "proclama di Trani" (116 magistrati del
distretto di Trani avevano chiesto al Ministro la riforma dell'Ordinamento
giudiziario, suscitando polemiche ed accuse che potete immaginare). Nel
settembre 1911 i soci erano diventati 1.700 e poi, nell'aprile del 1914, 2067.
Sotto il fascismo la nuova legge sui sindacati obbligò le associazioni
professionali a trasformarsi in "sindacati fascisti": orbene,
l'Assemblea generale dell'Associazione Magistrati, il 21.12.1925, piuttosto che
chiamarsi sindacato fascista ed accettare la sottoposizione al regime, deliberò
l'autoscioglimento.
L'ultimo numero della rivista dell'Associazione, "La Magistratura"
uscì il 15.1.1926. Vi figuravano il comunicato del Comitato Esecutivo (che dava
disposizioni anche per la liquidazione del patrimonio degli associati: pare si
trattasse di 20.000 lire) e l'editoriale, che entrambi appresso riporto. E'
stato bellissimo ribatterli, tasto dopo tasto, nella speranza che le parole si
fissino tutte nella mente e nell'anima. E non si scoloriscano.
Membro dell'Esecutivo (forse segretario generale), direttore de La Magistratura
ed autore dell'editoriale non firmato era Vincenzo Chieppa, papà di Riccardo.
Leggetelo, abbiate pazienza.
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dall'ultimo numero de La Magistratura, del 15.1.1926
"Alle Sezioni
L'Assemblea Generale del 21 dicembre (ndr: del 1925) ha
dichiarato sciolta l'Associazione e le sue Sezioni. I Consigli Regionali
provvederanno ad adottare in conseguenza i necessari provvedimenti; e i
segretari delle sezioni ne riferiranno sollecitamente al liquidatore nominato
dall'Assemblea, il consigliere Saverio Brigante.
Lasciando la carica, che consideriamo come titolo d'onore della nostra vita di
magistrati e di cittadini, inviamo il nostro saluto e i nostri ringraziamenti
fraterni ai colleghi delle sezioni che ci dettero l'incitamento della loro fede
e del loro consiglio.
E questo doloroso commiato, a cui siamo venuti con la consapevole fermezza
degli uomini che s'inchinano solo alla superiore volontà della legge, sia
avvivato dalla fiducia che ciascuno di noi porterà nell'opera quotidiana la
dignità e la rettitudine di propositi, di cui l'Associazione dei Magistrati per
oltre tre lustri è stata maestra costante.
Il Comitato Esecutivo"
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(Editoriale) "L'idea che non muore
L'Associazione dei Magistrati si è sciolta. Questo era il suo dovere dopo
l'approvazione della legge sui sindacati alla Camera dei Deputati. Con questo
numero La Magistratura sospende le sue pubblicazioni. E' un passo che compiamo
con tristezza profonda: non si spendono 15 anni in un'opera di sacrificio,
senza che questa divenga, alla fine, parte integrante della nostra persona e
della nostra vita e si leghi a noi, fibra a fibra, in piena solidarietà di
fortuna; non si vive anni ed anni in intima consuetudine di pensiero e di opere
con tanti amici e collaboratori, senza avvertire, al distacco improvviso, lo
strappo doloroso dei tessuti giovani e vitali, non logorati dal tempo e
refrattari per prova a qualsiasi bacillo di dissoluzione. Noi siano dunque
tristi, come, certo, tutti coloro che, non senza qualche sacrificio e qualche
degna prova di coraggio, ci hanno seguiti nel faticoso cammino, perché noi
tutti amammo l'Associazione nostra come si amano gli ideali in cui davvero si
crede: per se stessa, per quello che essa rappresentava nel rinnovamento della
giustizia italiana, al di sopra delle persone e dei loro interessi.
La nostra tristezza è grande: ma serena. Non rancori, non rimpianti, non il
moroso di inquietitudine morale. E' un placido tramonto primaverile che chiude
una feconda giornata: l'operaio raccoglie con mano ancora vigorosa gli
strumenti di lavoro, guarda tutt'intorno il suo campo, come ad accarezzare,
nell'attimo del commiato, ogni fil d'erba germogliato dal suo sudore e, sulla
via del ritorno, dimentica gli stenti e l'aspra fatica del giorno nella
anticipata visione delle rigogliose messi che verranno. E' questo il suo
premio, questo il miracolo delle sue forze che ogni giorno di rinnovano, delle
sue speranze che rinascono ad ogni colpo della delusione; della sua fede nella
vittoria all'indomani stesso della sconfitta più disperante. Il lavoro è la sua
croce e la sua gioia, la fede è la sua forza e tutto il suo premio.
Quest'operaio è come il Giusto del Vangelo: sempre pronto al combattimento,
come alla morte, eguale alle gioie ed al dolore, ai trionfi come alle
sconfitte; perché, a rigore, sconfitte e trionfi non sono che l'apparenza,
quando tutta la storia e tutto il progresso dell'umanità dimostrano che non una
sola goccia di sudore cadde mai invano dalla fronte dell'uomo e che neppure una
volta sola le opere della fede furono destinate alla sterilità ed alla morte.
L'una cosa che davvero uccide è la grettezza morale ed il disonore; è l'egosimo
degli uomini che profana la santità delle idee e prostituisce la fede nel
compromesso. Ma noi non conoscemmo queste ombre di umanità crepuscolare: la
nostra fine ne è il documento indiscutibile. Forse, con un po' più di
"comprensione" - come eufemisticamente suol dirsi - non ci sarebbe
stato impossibile organizzarci una piccola vita senza gravi dilemmi e senza
rischi: una piccola vita soffusa di tepide burette, al sicuro dalle intemperie
e protetta dalla nobiltà di qualche satrapia. Forse si poteva non morire, ad
anche vivacchiare non inutilmente come agenzia di collocamento per gli affamati
di nuovi posti o come sanatorio per gli affetti da "onorite" cronica.
Ma, per divenire eremita, persino il diavolo aspettò ad invecchiare: ci si
consentirà che, per divenire diavoli, sia egualmente necessaria una certa dose
di decrepitezza morale, e cioè un certo progressivo allenamento a giocare con
la propria anima come si fa con le vesciche di majale aggrinzite: il che non è
affare di un giorno, di un mese o di un anno. L'Associazione era troppo
giovane, vegeta ed assetata di vita, per trasformarsi in un'agenzia o in un
sanatorio.La mezzafede non è il nostro forte; la "vita a comando" è
troppo complessa per spiriti semplici come i nostri. Ecco perché abbiamo
preferito morire.
Era la sola maniera per tramandare intatta l'eredità morale della nostra
Associazione. Perché questa eredità c'è, è vistosissima e nessuno ha il potere
di distruggerla. L'edificio edificato i quindici anni occupa nell'anima della
giovane magistratura un posto infinitamente più largo ed importante di quello,
per verità modestissimo, che la povertà dei nostri mezzi e l'avversità delle
vicende consentirono di occupare esteriormente nella vita italiana. Questo
edificio è racchiuso tutto in una parola: l'indipendenza della magistratura,
come base d'indipendenza della giustizia. E' di quelle parole semplici, che una
volta penetrate nell'animo di un uomo o di un popolo, sono destinate a
trasformarsi in una forza dominante ed incoercibili. Or noi non ci
illudiamo di avere radicato nello spirito italiano l'esigenza di una giustizia
indipendente; ma siamo sicuri che di questa esigenza vive ormai la giovane
magistratura la quale fu sempre la forza vera del nostro sodalizio e tra noi
educò una fierezza nuova nell'esercizio della funzione giudiziaria e diede,
nonostante i tempi e gli ordinamenti, esempi indimenticabili di dirittura e di
indipendenza.
E' un'esigenza, che nessuno potrebbe sradicare, tanto essa è legata fibra a
fibra con tutte le aspirazioni, i propositi e gli studi vigorosi, che rendono
feconda e bella la giovinezza: è tutta una vita, tutta una conquista. Nessuno
ha il potere di addormentare mai più anime, su cui sia caduto il raggio di una
tal luce. E' come il biblico frutto proibito: "qui en a touchè, en
touchera" .
La nostra fine consacra questa grande eredità morale, nella quale è, per noi,
tutta la consolazione e tutto il premio di quest'ora triste. L'Italia avrà
giorni felici, come noi speriamo, o tristi: la giustizia italiana rifulgerà di
nuova luce o decadrà nel politicantismo. Nessun può far prognostici. Ma una
fede ferma ci sorregge in fondo all'animo: che tutto ciò che è saldamente
edificato nel cuore degli uomini è inviolabile ed indistruttibile." (FINE)
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Il regime fascista, con RD 16.12.1926 destituì dalla magistratura Vincenzo
Chieppa ed i più noti ex dirigenti della disciolta Associazione. Essi furono
reintegrati in magistratura alla caduta del fascismo, allorché anche
l'Associazione Magistrati si ricostituì.
Vincenzo Chieppa fece allora leggere al figliolo Riccardo le lettere anonime
che lo riguardavano e che, durante il fascismo e negli anni antecedenti lo
scioglimento dell'Associazione, vari colleghi avevano inviato al regime. Dopo
la lettura le strappò dicendo al figlio che anche in quel modo - cioè
attraverso quella modalità di oblio e perdono - si afferma la coscienza di un
democratico.
Poco dopo, un collega "pentito", si fece vivo con Vincenzo Chieppa,
dicendogli che intendeva chiedergli perdono per gli scritti di cui era
responsabile; anzi lo autorizzava a usarli ed a far sapere a chiunque che lui
ne era l'autore: insomma, un modo di espiazione. Ma Vincenzo Chiappa rispose
che non ricordava assolutamente nulla.
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Buona notte, soprattutto ai tanti giovani colleghi che costituiscono il futuro
dell'Associazione cui ci onoriamo di appartenere, pur tra errori e differenti
vedute delle cose della vita e del nostro mondo. Ma è la vita, appunto, e
lucidamente è possibile parlare solo degli anni passati, difficilmente di
quelli che si vivono, spesso con qualche amarezza di troppo.
Armando Spataro
Componente della Giunta Esecutiva Centrale della Associazione Nazionale
Magistrati