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La carriera giudiziaria negli stati membri di Medel
relazione di Gioacchino Natoli - Movimento per la Giustizia
(Cracovia, 30 settembre 2005)

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La carriera giudiziaria si trova oggi in Italia a cavallo tra due sistemi: quello in vigore ed l'altro che, tra alcuni mesi, dovrà sostituirlo dopo la recente approvazione della legge di contro-riforma giudiziaria del 30 luglio 2005, fortemente voluta dalla maggioranza politica che, in atto, governa il paese.
Cercherò di dare in sintesi, quindi, un'idea del sistema ancora vigente (soprattutto perché è assolutamente in linea con i principi della Costituzione) nonché delle principali innovazioni che la nuova legge vuole introdurre (con molto probabili violazioni di principi costituzionali).
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Il sistema oggi vigente può dirsi articolato in due stadi:
Ø nel primo, tutti i magistrati (giudici o pubblici ministeri) - decorso un numero prefissato di anni dall'ingresso in carriera - vengono valutati dal Csm e, in caso positivo, acquisiscono una legittimazione "generica" (magistrato di tribunale, di corte di appello, di cassazione o idoneo alle funzioni direttive superiori) con la quale conseguono immediatamente la qualifica "nominale" del livello superiore e la relativa retribuzione;
Ø nel secondo stadio, il singolo magistrato - ove voglia farlo - può partecipare ad uno specifico concorso, indetto dal Csm, per l'attribuzione di effettivi "posti-funzione" vacanti (di appello o di cassazione ovvero per funzioni direttive o semi-direttive), che siano corrispondenti alla "qualifica nominale" da lui posseduta.

Tale sistema che, dopo varie modifiche per renderlo conforme alla Costituzione repubblicana del 1948, è già in vigore dal 1973, si basa sulla cd. "promozione a ruoli aperti", cioè non legata allo svolgimento in concreto di funzioni corrispondenti alla qualifica posseduta.
Ciò significa, in concreto, che magistrato che possiede già la qualifica di magistrato di cassazione (conseguibile dopo almeno 20 anni di carriera) può svolgere funzioni di primo grado (cioè di giudice di tribunale o di sost. procuratore) fino a quando non decida, volontariamente, di partecipare ad un concorso per la funzione di consigliere appello o di consigliere di cassazione.
Questo sistema consente, però, al magistrato stesso di progredire dal punto di vista economico senza essere "costretto" ad abbandonare la funzione e la sede in atto ricoperta: così si è realizzato un fondamentale principio della Costituzione repubblicana, che ha voluto l'inamovibilità dei magistrati, se non a loro domanda, per impedire che il potere esecutivo (come avveniva in passato) potesse allontanare un magistrato "scomodo" da un certo processo (art. 107, comma 1).
Esso obbedisce, inoltre, ad un altro fondamentale precetto della Costituzione stessa, secondo cui i magistrati sono tutti uguali e "si distinguono fra loro soltanto per diversità di funzioni" (art. 107, comma 3).
Questo sistema ha permesso finora - come detto - di utilizzare magistrati esperti e preparati nelle delicate funzioni di primo grado (che sono quelle di maggiore impatto sociale) presso sedi particolarmente "calde" per la presenza di stragi di mafia o di fenomeni di terrorismo e criminalità economica, che viceversa sarebbero state inevitabilmente coperte solo da magistrati giovani e meno esperti (con anzianità massima di soli 13 anni), con ovvia perdita di efficacia nell'azione di contrasto alle varie forme di criminalità (si pensi, ad es., al cd. processo "mani pulite" di Milano).

Nel primo stadio, le valutazioni di professionalità, di laboriosità e di cultura giuridica espresse soltanto dal Csm (sulla base di un rapporto del capo dell'ufficio e di un parere del Consiglio giudiziario, organo eletto da tutti i magistrati in ognuna delle ventisei Corti di appello) riconoscono la idoneità astratta del magistrato a rivestire la qualifica superiore (di corte di appello, di cassazione etc.).

Viceversa, nel secondo stadio, quando il magistrato decide di partecipare ad un concorso (per titoli) per l'assegnazione di uno specifico "posto-funzione" (cioè effettivamente corrispondente alla qualifica nominale da lui posseduta), il Csm effettua una valutazione comparativa reale tra tutti i candidati che aspirano a ricoprire quel posto, assegnandovi i più meritevoli.

Tale sistema (previsto nel 1948) si è potuto realizzare, dopo non poche resistenze, solo negli anni Settanta (cioè dopo oltre vent'anni dalla Costituzione), perché è espressione di una magistratura realmente "autonoma ed indipendente", in cui tutti i magistrati sono di fatto "uguali fra loro".
Infatti, le funzioni più elevate di appello e di cassazione non appartengono ad una gerarchia qualitativa (che potrebbe compromettere la libertà di decisione dei giudici di primo grado) ma sono soltanto espressione dei diversi gradi del processo civile o penale.

Questo assetto ha consentito finora alla magistratura italiana tutta (giudicante e requirente) di potere esercitare un controllo libero da condizionamenti verso ogni forma di devianza criminale, evitando di fare svolgere all'ordine giudiziario - come avvenuto nel periodo fascista e negli anni dal 1948 al 1973 circa - solo il ruolo di "cane da guardia" del sistema dei cd. "poteri forti".

La legge di contro-riforma dell'ordinamento giudiziario del 2005 vuole, invece, riportare indietro l'orologio della storia.
Il fine della contro-riforma è quello, infatti, di smontare l'architettura istituzionale e normativa realizzata in attuazione del dettato costituzionale repubblicano e di smantellare - in definitiva - la funzione di una magistratura che, concretamente, vede i cittadini come uguali davanti alla legge, indipendentemente dal censo e dal ruolo rivestito nella società.

Il salto di qualità compiuto in Italia con la costruzione dello stato democratico di diritto si è realizzato attraverso strumenti culturali, normativi ed istituzionali, che hanno consentito in concreto una effettiva "terzietà" non solo dei giudici ma anche dei pubblici ministeri, e che li ha resi insensibili alle pressioni dei potenti di turno.
Tutto ciò si è potuto attuare, da un lato, per l'esistenza di un ordinamento giudiziario che ha permesso la progressione in carriera dei magistrati " a ruoli aperti" e, dall'altro, per la presenza di un Consiglio superiore della magistratura realmente autonomo ed indipendente dal potere politico, protagonista delle promozioni e dei trasferimenti.

Ciò che con la legge di contro-riforma si vuole è che, invece, la magistratura torni ad essere uno strumento di controllo "feroce" verso i deboli e "morbido", viceversa, verso ogni forma di devianza dei "poteri forti" politico-economici .

Il nuovo progetto di riforma ruota, dunque, intorno ad alcuni nuclei portanti.
Il più rilevante tra questi pilastri è, di certo, il ritorno alla gerarchizzazione della magistratura attraverso:

Ø selezione meritocratica;
Ø sistema di concorsualità permanente;
Ø preminenza della Corte di cassazione nella formazione e conformazione degli orientamenti interpretativi dei magistrati di tribunale e di appello, attraverso l'attribuzione ad essa della valutazione professionale di questi ultimi;
Ø ridimensionamento del ruolo autonomo ed indipendente del Csm in materia di promozioni, trasferimenti ed anche di formazione - iniziale e permanente - dei magistrati.

La "selezione meritocratica", invero, è un metodo che astrattamente si può condividere. Essa, però, diventa assolutamente da respingere quando assume i connotati di una forma di "concorsualità permanente", in cui cioè i magistrati devono passare gran parte del loro tempo non già a lavorare per i processi bensì a preparare concorsi esclusivamente teorici. E quando questa "selezione" è, di fatto, dominata da commissioni di concorso composte in larga maggioranza da magistrati della Cassazione e da membri nominati dal ministro della giustizia, lasciando al Csm soltanto l'apparente libertà di scegliere esclusivamente tra i magistrati inseriti nelle graduatorie così formate.

Questo progetto, dunque, tende a realizzare quel conformismo dei magistrati e quell'impulso mimetico che regnava incontrastato nella corporazione fino al 1973 (in contrasto con il dettato costituzionale del 1948), inducendo inevitabilmente orientamenti giurisprudenziali e comportamenti quotidiani, che siano in chiara sintonia con il potere politico di volta in volta al governo, in modo da ottenere "giudici su misura" per processi sostanzialmente "finti".

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Passando alla seconda parte della ricognizione prevista dallo schema di questo incontro, vanno analizzati i risultati della situazione italiana sui seguenti punti, che saranno trattati più approfonditamente dal collega Luca de Matteis.

Ø La responsabilità (civile e disciplinare del giudice per le sue decisioni)

Responsabilità civile:
Dal principio costituzionale di soggezione alla legge scaturisce per il giudice, per un verso, la "non responsabilità" per l'attività di interpretazione di norme di diritto o di valutazione del fatto e delle prove, e, per altro verso, la "responsabilità" per l'ingiusto danno che egli abbia potuto cagionare con un comportamento, un atto o un provvedimento.
Una legge del 1988 - introdotta a seguito di referendum popolare - individua la fonte della responsabilità civile dei magistrati (giudici e p.m.) in condotte caratterizzate da dolo, da colpa grave o da diniego di giustizia.
Per quel che attiene al "dolo", basta fare riferimento alla nota nozione penalistica che qualifica questo elemento psicologico.
La nozione di "colpa grave", invece, si delinea quando vi è:
- grave violazione di legge determinata da negligenza inescusabile;
- affermazione o negazione (determinata da negligenza inescusabile) di un fatto la cui esistenza è incostrastabilmente esclusa o avvalorata dagli atti del procedimento;
- emissione, fuori dai casi consentiti dalla legge o senza motivazione alcuna, di provvedimenti restrittivi della libertà personale.
Il "diniego di giustizia" si configura quando:
- trascorso il termine previsto dalla legge per il compimento dell'atto, la parte ha presentato istanza per ottenere il provvedimento e sono (senza giustificato motivo) decorsi altri trenta giorni (o cinque giorni in caso di provvedimento sulla libertà personale);
- imposto un vincolo alla libertà personale dell'imputato, si sia verificata una situazione o sia decorso un termine che abbia reso incompatibile la permanenza di tale vincolo.
In linea generale, può affermarsi che:
Ø l'azione di risarcimento del danno può essere esercitata solo quando tutti i mezzi ordinari di impugnazione siano stati esperiti dalla parte;
Ø la pretesa risarcitoria deve essere avanzata solo nei confronti dello Stato;
Ø il magistrato che ha dato causa alla richiesta non può essere chiamato in causa, ma può intervenire in ogni fase e grado del processo. Egli comunque non può essere assunto come teste né nel giudiziio di ammissibilità, né nel giudizio sul merito della responsabilità;
Ø in caso di condanna al risarcimento, lo Stato deve intentare giudizio di rivalsa nei confronti del magistrato.
Le vittime di errori giudiziari e di ingiusta detenzione hanno, dal loro canto, un diritto autonomo alla riparazione nei confronti dello Stato.

Per i fatti che hanno dato causa al giudizio per il risarcimento, il magistrato va comunque sottoposto sempre a giudizio disciplinare.

Responsabilità disciplinare
In tale materia, bisognerà delineare il sistema vigente e quello che si profila all'orizzonte dopo l'approvazione della recente legge di contro-riforma dell'ordinamento giudiziario.
Va detto, poi, che l'azione disciplinare è facoltativa e che il suo esercizio spetta, in maniera autonoma e concorrente, al Procuratore generale presso la Corte di Cassazione ed al Ministro della giustizia.
Il giudizio disciplinare si svolge, in primo grado, davanti ad una apposita sezione del Consiglio superiore della magistratura.
Avverso a tali decisioni è sempre esperibile ricorso alle Sezioni unite civili della Corte di Cassazione.

Sistema vigente
In linea generale, l'attività processuale del magistrato è suscettibile di sindacato in sede disciplinare solo ove costituisca atto abnorme ovvero sia conseguenza di gravi e macroscopiche violazioni di legge, dovute a negligenza inescusabile o a dolo.
Il principio costituzionale della soggezione del giudice soltanto alla legge esclude che - salvo i casi di macroscopico errore o di inescusabile negligenza - nell'attività di interpretazione delle norme e di valutazione delle prove sia ammissibile qualsiasi controllo diverso da quello rimesso dalla legge al giudice dell'impugnazione.

Sistema futuro
La legge-delega di contro-riforma ha previsto una ampia modifica della materia disciplinare.
In questa, tra l'altro, sono state delineate le linee-guida che appositi decreti legislativi (in corso di elaborazione) dovranno esplicitare in materia di "illeciti disciplinari nell'esercizio delle funzioni giudiziarie".
Nella sfera di questi ultimi illeciti, compare al primo posto una direttiva che qualifica come illeciti disciplinari nell'esercizio delle funzioni i comportamenti che, violando i doveri di imparzialità, correttezza, diligenza, laboriosità, riserbo ed equilibrio, arrechino "ingiusto danno" o "indebito vantaggio" ad una delle parti.
Orbene, l'uso di termini come quelli sopra elencati (correttezza, equilibrio etc.), svincolati da ogni riferimento ai presupposti del dolo o della colpa grave del magistrato, sembra aprire la porta a possibili iniziative verso un magistrato da parte di soggetti processuali "in difficoltà", che vogliano intimidire o minacciare il magistrato stesso (giudice o p.m.) con esposti o denuncie anche infondate.

Inoltre, appare largamente insoddisfacente la soluzione approntata dalla legge-delega per risolvere la delicata questione del sindacato disciplinare sull'attività interpretativa.
Infatti - dopo avere ribadito la sanzionabilità dei provvedimenti giudiziari privi di motivazione, delle sentenze cd. "suicide" e dei provvedimenti abnormi - la nuova legge esclude che possa dar luogo a responsabilità disciplinare "l'attività di interpretazione di norme di diritto in conformità all'art. 12 delle disposizioni sulla legge in generale".
Orbene, da un lato, lo stesso Csm (in un suo recente parere) ha segnalato che una tale formulazione possa dar luogo a responsabilità disciplinare del giudice per la "valutazione dei fatti e delle prove".
Dall'altro, resta aperta la difficile problematica relativa alla sorte da riservare alla "interpretazione adeguatrice" alla Costituzione, alla "interpretazione delle norme sulla interpretazione", al significato da attribuire all'espressione "volontà della legge".
Pertanto, si è abbandonata la strada maestra contrassegnata dalla limitazione della sanzione disciplinare ai casi di provvedimenti abnormi e si è scelto un impervio cammino, che rischia di trasformare tutte le complesse e dibattute questioni connesse all'interpretazione in altrettante occasioni di possibile controllo e sanzione disciplinare.
Quindi, il giudice "senza timori e senza speranze", vagheggiato dalle democrazie liberali, che adotta le sue decisioni seguendo soltanto i dettami della sua coscienza e del suo sapere giuridico, sembra destinato a cedere il posto ad un "giudice-funzionario", sempre più preoccupato di non incappare nelle maglie di un giudizio disciplinare, anche quando riveste la funzione-principe della sua attività: l'interpretazione della legge.

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