Rita Bernardini
Con Salvatore ci siamo conosciuti – indovinate dove? – nel carcere di Rebibbia, perché da anni, prima con Marco Pannella, poi con il Partito Radicale e con l’associazione Nessuno tocchi Caino, frequentiamo moltissimo le carceri. E lo sa sicuramente il dottor Petralia, che oggi ha voluto invitarmi qui e con il quale, quando lui era il capo del DAP, cioè dell’Amministrazione Penitenziaria che governa tutte le 189 carceri italiane, abbiamo cominciato a parlarci. Lui, a un certo punto, ha voluto conoscermi, conoscere la nostra associazione, perché era rimasto colpito: “Ma come mai volete andare in carcere?”. Perché c’è un articolo dell’ordinamento penitenziario che consente anche ad associazioni, a singoli cittadini, di poter fare delle visite autorizzate.
Naturalmente io l’ho fatto: sono stata parlamentare, deputata per una legislatura, e lì la legge, l’ordinamento penitenziario, prevede che tutti i parlamentari della Repubblica – deputati, senatori, parlamentari europei, consiglieri regionali – possano entrare in carcere senza preavviso. Finita la legislatura, nel 2013 abbiamo cominciato ad entrare – ci sono stati altri capi del DAP – con l’articolo 117 dell’ordinamento penitenziario. E calcolate che l’anno scorso abbiamo visitato 120 carceri, perché quasi tutti i giorni ci andiamo. Io, se sono qui oggi, è perché ho preso un volo – grazie all’organizzazione di questo magnifico incontro – da Cagliari e sono venuta a Bari perché ci tenevo molto.
Perché? Perché quando entri in carcere, se c’è una cosa che ti dicono i detenuti è che vorrebbero lavorare. Lo chiedono non solo per non stare nell’ozio tutto il giorno ad aspettare che il tempo passi, ma molti lo chiedono per poter mandare denaro ai propri figli minori, perché molti hanno figli piccoli e allora già si sentono in colpa perché stanno in carcere. Però la strada può essere semplice dell’ingresso in carcere se si proviene dalle zone degradate delle nostre città.
Ecco, vi dico un’altra cosa: chi incontriamo nelle carceri? Incontriamo tutto il disagio sociale. Incontriamo persone dipendenti in modo problematico da sostanze stupefacenti, quelli che vengono chiamati più sinteticamente tossicodipendenti; troviamo persone che hanno problemi psichiatrici e che vanno a finire in carcere per vari tipi di reato; troviamo gli stranieri che spesso non sono regolari e che sono facile preda della criminalità più o meno organizzata perché, essendo dei fantasmi sul territorio, chi dà loro lavoro – sono magari gli spacciatori – ha bisogno di manodopera, no?, per diffondere le sostanze stupefacenti; troviamo i poveri, poveri proprio, persone che non hanno una casa, che vivono per strada. Questa è un po’ la tipologia della maggior parte delle 62.000 persone che in questo momento si trovano nelle carceri italiane.
Quindi, dicevo, la prima cosa che ti chiedono è il lavoro, oppure poter studiare se sono molto giovani; oppure ti fanno presenti i problemi sanitari che ci sono e sono enormi all’interno del carcere. Ti fanno presente questo disagio, questo mancato contatto come dovrebbe essere con la propria famiglia, con la propria moglie o compagna, o viceversa, oppure soprattutto con i figli minori. Quando si hanno bambini piccoli e si sta in carcere, il dolore del genitore è immenso: sentono proprio la mancanza. E molti di questi bambini – credo che il dottor Petralia ve ne possa portare la testimonianza – si ammalano per la mancanza soprattutto della figura paterna; si ammalano e sviluppano delle patologie anche molto gravi, per cui si deve ricorrere allo psicologo quando c’è, perché non in tutte le zone dell’Italia queste persone possono essere seguite.
Quindi il lavoro è importantissimo. Per cui, tornando a Dino Petralia, a un certo punto io m’ero messa in testa – perché ci sono anche delle buone leggi, e noi abbiamo un ordinamento penitenziario che è bellissimo, tranne alcune riforme che sono state fatte – ma abbiamo una legge, la legge Smuraglia, che consente di portare il lavoro qualificato in carcere. Cioè, l’impresa che vuole può entrare dentro il carcere, avere a disposizione il posto, il capannone, diciamo, dove far svolgere determinate attività, e può avere uno sgravio fiscale molto significativo su ciascun detenuto che prende a lavorare. Dopodiché questo sgravio fiscale – quindi l’impresa ci guadagna da tutti i punti di vista – prosegue per altri 18 mesi se assume il detenuto, l’ex detenuto, fuori.
Il problema è che in tutta Italia non arriviamo a 2.000 detenuti assunti da queste varie imprese. Tutto il resto che lavori fanno all’interno del carcere? Fanno lavori poco qualificanti. Insomma, se io faccio il “portavitto” – e non vi dico che vitto – e porto il vitto a ciascun detenuto, cella per cella, non è che sia un lavoro qualificante. Insomma, un carrello lo sanno spingere in molti. Se io pulisco, insomma, per terra, non è che sia un lavoro qualificante. Scopino sappiamo fare un po’ tutti. Quindi, una volta uscito dal carcere, quello non è un lavoro qualificante. Poi viene fatto per poche ore al giorno questo lavoro, e viene fatto per alcuni mesi dell’anno.
E allora che cosa serve? Serve cambiare mentalità per portare lavori qualificanti in carcere. Ma serve – io lo dico qui perché sembra una nostra fissazione ma non è una nostra fissazione – e le carceri non possono essere sovraffollate come sono oggi. Cioè, noi abbiamo in Italia 62.000 detenuti in 46.000 posti, e quindi stanno stretti: non solo stanno chiusi ma non hanno quasi niente da fare tutto il giorno. E allora poi si spiega perché quando una persona ha finito di scontare la sua pena ha un indice di recidiva, cioè torna a delinquere, nel 70-80% dei casi. Cioè, è matematico.
Voi sapete che ci sono anche le pene, le misure alternative al carcere. Oggi una persona che deve scontare un lasso di tempo breve, oppure addirittura il giudice della cognizione, dopo le modifiche che sono state fatte con la Cartabia, può decidere che, anziché mandarti in carcere, se sei stato condannato a una pena inferiore ai 3 anni, può mandarti in una misura alternativa: affidamento al lavoro, lavori di pubblica utilità. E guardate, la cosa è che quelle misure e pene alternative al carcere vedono crollare la recidiva, soprattutto se uno ha sbagliato la prima volta. Se trova una strada di reinserimento sociale e non vive quella realtà umiliante del carcere, difficilmente torna a delinquere.
Quindi potremmo dire qui che il carcere è un fallimento. E allora noi abbiamo uno Stato. Voi dite però: “Lo Stato deve essere severo, se uno ha sbagliato io ti metto in carcere e devi pagare”. Lo dicono, no?, in televisione. Addirittura c’è chi esagera e dice: “Io ti metto in carcere e butto via la chiave”. E beh, siccome però non si può dare l’ergastolo per qualsiasi tipo di reato, uno a un certo punto esce, ma esce dopo aver subito quel trattamento. Ma lo Stato – questa è una domanda che da cittadini ci dobbiamo fare – ha rispettato le leggi che lui stesso si è dato, come l’ordinamento penitenziario o addirittura la Costituzione?
Qui ci sono dei giovani e forse è il caso di ricordarlo: l’articolo 27 della Costituzione recita: “Le pene non possono essere contrarie al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”. Voi vi rendete conto che tutto questo... Noi siamo stati condannati nel 2013 dalla Corte europea dei diritti dell’uomo perché ha detto che l’Italia, a causa del sovraffollamento, faceva alle persone detenute sistematicamente dei trattamenti inumani e degradanti. Allora, quindi dobbiamo cominciare ad attuarla questa Costituzione che qui è stata citata.
E quello che voglio dire: a me piacerebbe, ma veramente con l’impegno di tutti i cittadini, che da qui possa partire anche una proposta, perché le imprese non portano il lavoro in carcere, spesso non conoscono nemmeno le leggi. Quando io chiesi al capo del DAP allora, Dino Petralia: “Dobbiamo raddoppiare i finanziamenti della legge Smuraglia”, lui mi rispose: “No Rita, che cosa chiedi? Non sono stati nemmeno spesi tutti i fondi già messi a disposizione, quindi semmai dobbiamo informare che c’è questa possibilità”. E allora noi potremmo fare insieme, Nessuno tocchi Caino, ma con chiunque ci voglia stare – non dobbiamo dividerci – ma con fermezza e determinazione fare dei convegni, magari uno al Nord, uno al Centro, uno qui a Bari, dove si chiamano a raccolta le imprese, i commercianti, e terzo con le istituzioni. Perché anche le istituzioni hanno dei compiti ai quali purtroppo non adempiono, e questo è inaccettabile, perché le regioni, per esempio, devono organizzare dei corsi professionali e quindi prevedere degli stanziamenti per questi corsi; stesso compito hanno i comuni. Allora riuniamoli, ma – quasi io dico – che da ognuno di questi incontri possano scaturire dei patti, dei protocolli firmati per dare la speranza a queste persone che non chiedono altro che di poter, a un certo punto della propria vita, smettere di essere i cattivi.
Parentesi: in carcere non ci sono solamente i colpevoli, ci sono anche gli innocenti, questo dobbiamo saperlo, perché in carcere ci finiscono anche persone che poi lo Stato dovrà risarcire per ingiusta detenzione. Ma io dico: quelle persone che a un certo punto della propria vita hanno capito – perché non è facile anche uscire dalla tossicodipendenza – che vogliono cambiare strada e vogliono tornare a una convivenza civile, beh, aiutiamoli, ma facciamolo concretamente.
Come testimonianza, vi racconto una delle ultime esperienze che ho visto a Belluno, dove va molto forte Luxottica, l’occhialeria, eccetera. Lì c’è stato un presidente di una cooperativa che si chiama Gianfranco Borgato, che ha cominciato ad andare in tutte queste fabbriche – perché poi i nomi fanno capo tutti, ma sono diverse le imprese che operano in questo settore – e ha preso delle commesse, dice: “Te lo porto io il lavoro in carcere”. E questi che cosa fanno? Stampano, hanno delle stampanti, quindi anche macchinari di un certo valore, stampano quelle pezzette che noi usiamo per pulire gli occhiali con il marchio di fabbrica, perché la fabbrica vuole farsi pubblicità. Ma fanno anche altri lavori di assemblaggio, e lì lavorano oltre il 50% dei detenuti.
Io vi do il dato nazionale: in Italia il 4% delle persone detenute – quindi solo il 4% – fa lavori un minimo professionalizzanti che possono essere spesi una volta usciti dal carcere. Ma la maggior parte fa quei lavori di cui vi parlavo prima, che non sono professionalizzanti. Già quando uno esce dal carcere e dice: “Sono stato detenuto”, si spaventano; quindi bisogna abituare anche gli imprenditori.
Ma se noi facciamo questo, caro Dino, lo facciamo in una città del Nord che può essere in Veneto, dove c’è già una realtà, ma lo facciamo qui a Bari, dove io credo che possiamo trovare una risposta forte, lo facciamo al Centro, e passare già da questi numeri, da questo vergognoso 4% al 10%, al 15% entro 2-3 anni, io credo che già darebbe un segnale diverso ai cittadini. Perché queste persone devono... sono nostre, siamo noi queste persone. Spesso, lo ripeto, vengono da realtà come quelle che ci ha raccontato Salvatore; siamo noi, e dobbiamo convivere per creare qualcosa di importante che possiamo veramente lasciare ai nostri figli e ai nostri nipoti.
Grazie.