Bruno Giordano
Abbiamo sentito oggi, ci è stato ricordato delle parole che ha pronunciato ieri il Presidente Mattarella, e ci si chiede sempre perché si muore in questo Paese, particolarmente perché si è feriti sul lavoro, dimenticando che non si muore soltanto sul lavoro ma si muore di lavoro, e l’Ilva ne è un esempio.
E non si muore soltanto, e non si viene feriti soltanto perché manca una cintura di sicurezza, o perché si scivola su una tavola, o perché cade una trave o esplode qualcosa, ma si muore anche di politica economica sul lavoro e di lavoro. L’Ilva ne è un esempio.
L’Ilva non è un mostro calato dall’alto: è stata creato dallo Stato nel 1965, il 10 aprile. Fu Giuseppe Saragat, il Presidente della Repubblica, a inaugurarlo. Nel pieno del 1968 Paolo VI celebra la messa di Natale dentro lo stabilimento dell’Ilva. Nel marzo del 1980 Sandro Pertini, Presidente della Repubblica, va a pranzare con gli operai in quella mensa.
Ma poi l’Ilva, nel ’95, viene venduta alla famiglia Riva. Lo Stato esce, cede a un privato: si chiamerà privatizzazione. Nel 2012 un giudice di Taranto sequestra e dispone delle custodie cautelari, sequestra gli impianti dell’area a caldo, ma subito dopo c’è un governo, il governo Monti, che emana un decreto per paralizzare gli effetti di quel sequestro e far ricominciare la produzione.
E da lì comincia una storia che fino a ieri mattina, con un sequestro disposto da un giudice di Potenza, ha ancora l’ultima puntata. Diversi ministri dello Sviluppo Economico sono intervenuti in diversi modi: Patuanelli, Di Maio, Calenda. Hanno avuto tutti: "La affittiamo? No, la vendiamo. La affittiamo agli indiani e poi la compreranno, però vogliono l’immunità penale." Ma certo, diamogli l’immunità penale, che in questo Stato non ce l’ha nessuno, nemmeno il Presidente della Repubblica, ma gli amministratori dell’Ilva sì, la devono avere l’immunità penale. E poi gli ritiriamo l’immunità penale. Allora gli indiani fanno un ricorso al Tribunale di Milano perché vogliono uscire. Ma allora lo Stato ricompra l’Ilva, la ricompra in parte fino al 60%, diventa socio di maggioranza e ritorna quindi a produrre acciaio.
E nel frattempo l’Ilva ha fatto una rivoluzione: ha trasformato la classe operaia in cittadini inquinati. Non ci interessa più quello che succede dentro l’Ilva, perché quello che succede dentro succede anche fuori: uccide dentro e uccide fuori. Siamo tutti uguali dentro e fuori la fabbrica.
Ma non si muore soltanto perché non siamo capaci di una politica economica attenta alla salute, all’ambiente, e non lo siamo stati nemmeno dopo che due anni fa è stata riformata la Carta Costituzionale: è stato introdotto nell’articolo 9 l’ambiente, è stato introdotto nell’articolo 41, secondo comma, l’ambiente e la salute come limite della libertà di iniziative economiche.
In questo Paese si muore di lavoro anche per l’assenza di memoria. Si muore e si viene feriti. Spesso guardiamo i numeri, ci sono stati ricordati anche stamattina, che di per sé disegnano un quadro difficilissimo: un morto ogni 8 ore, ma soprattutto circa 2000 infortunati al giorno, cioè la media di uno ogni 50 secondi.
Noi pensiamo che in queste 2 ore in cui stiamo insieme, 120 minuti, e noi siamo circa 120 persone, torneremo a casa e troverà ciascuno di noi un padre, una madre, un figlio, un fratello infortunato. Cambierà la sua vita, cambierà tutta la nostra vita, di tutta la famiglia. Quindi sono 2000 famiglie al giorno che sono travolte da questo.
Potremmo dire che questo è il 6% del PIL, potremmo dire che i morti di lavoro in questo Paese sono 25 volte superiori ai casi di femminicidio, cinque volte superiori agli omicidi di criminalità organizzata. Ma a tutto ciò noi continuiamo a rispondere col silenzio e con la rassegnazione. Se la mafia uccidesse una persona ogni 8 ore e ne ferisse uno ogni minuto, noi vorremmo l’esercito davanti ad ogni dominio. Rispetto al lavoro questo non siamo capaci nemmeno di pensare, ma anzi ci dimentichiamo spesso di questo.
Faccio un esempio: maggio 2021 alcune famiglie salgono su una cabina di una funivia a Stresa. Quella cabina crolla, scivola: è la tragedia del Mottarone. Forse è stato rimosso una parte del sistema frenante per ragioni che sono ancora in corso di accertamento. E se vi ricordo questo caso, tutti pensando alla tragedia della funivia del Mottarone pensano a un bambino, l’unico che si è salvato, un bambino di cui subito si dice la religione: ebreo, sequestrato dai nonni, portato in Israele e riportato poi in Italia. Ma chi di voi ricorda quanti morti ci furono? Eh, 14. Ma nella nostra memoria è rimasta un’altra cosa, perché ci è stata fatta una narrazione di qualcosa che è rimasto nella nostra memoria. Allora forse dovremmo avere un senso di colpa per la memoria che non abbiamo.
E faccio tre esempi. Durante il Covid noi abbiamo avuto tre categorie che ci hanno salvato la vita e di cui oggi ci siamo dimenticati. La prima è quella degli operatori sanitari: ci siamo commossi a vedere la foto di un’infermiera che dormiva su una tastiera di un computer. Oggi nessuno ha ampliato il numero dei posti banditi per gli operatori sanitari e non ne parla più nessuno, ce ne siamo dimenticati.
La seconda categoria era quella dei braccianti. L’allora ministro Bellanova volle urgentemente una regolarizzazione per braccianti e lavoratrici e lavoratori domestici, a cui aderirono 230.000 persone. Cioè in quei mesi noi avevamo 230.000 persone che stavano nelle nostre case e stavano in campagna, a nero, a raccogliere quei prodotti che noi trovavamo al supermercato, l’unico posto dove potevamo andare facendo un’ora di fila col carrello in mano. Quelle persone ci davano da mangiare, ce ne siamo assolutamente scordati. 230.000 persone: pensate che la ex Fiat in Italia oggi ha 34.062 dipendenti. Noi avevamo sette Fiat a nero che ci davano da mangiare.
Il Ministero degli Interni deve ancora, dopo 4 anni, sbrigare oltre il 50% delle pratiche di regolarizzazione.
E poi c’era una terza categoria: i braccianti metropolitani, i rider, quelli che ci portavano le pizze a casa. Solo cinque piattaforme digitali hanno avuto vari processi che hanno accertato 64.000 dipendenti senza tutele, la quintessenza del precariato e della precarietà, il lavoro a richiesta su richiesta del consumatore. Di questo noi ci siamo dimenticati.
Ma perché ce ne siamo dimenticati? Perché qualcuno non ce ne parla più. Allora forse anche le parole che vengono usate quando si parla di queste colpe sono colpevoli. Non ci sono soltanto le parole della colpa, ma anche la colpa delle parole.
Vorrei fare qualche esempio: è quello che noi leggiamo ogni giorno e che ci consente di dimenticare, di rimuovere quello che è accaduto ieri, quello che è accaduto a Brandizzo, quello che è accaduto alla ThyssenKrupp, quello che è accaduto a Savignano, quello che è accaduto a Dacca, quello che è accaduto al supermercato di Firenze. Sembrano cose ormai lontanissime, dimenticate, rimosse. Ma se proviamo a chiedere qual era la marca del pandoro con cui la signora Ferragni ha avuto determinati problemi, questo se lo ricordano tutti. Vuol dire che qualcuno ci ha detto delle cose per non farcele ricordare.
E faccio degli esempi: non solo nella comunicazione ma anche nella legge si parla sempre di infortunio, come se tornare a casa fosse una fortuna. Cioè, è una fortuna se torni a casa oggi, sei stato sfortunato a non tornare a casa.
Si parla sempre nel racconto, nella cronaca: morto un operaio di... anni. Se sono 65 era troppo anziano per stare in un cantiere, 19 anni era troppo giovane. Ma perché? Esiste un’età giusta per morire sul lavoro? E allora è strano che abbia 19 anni o 65?
Ci viene detto che sono morti sul lavoro, quasi mai leggiamo che sono omicidi le morti sul lavoro. E quando qualcuno ci racconta un incidente stradale ci dice subito chi guidava, se poi... e te lo dicono subito che era un autista, un automobilista di una determinata nazionalità. Quando c’è un morto sul lavoro nessuno ti dice chi guidava l’impresa. Oggi nessuno sa chi è che guidava l’impresa di Brandizzo o delle 64 imprese che lavoravano al supermercato di Firenze.
E ancora, forse la cosa più significativa: i colori di questo racconto. Vi siete mai chiesti perché sono "morti bianche" e "lavoro nero"? Perché il bianco vale per la morte e il nero vale per il lavoro? Questi due colori così antitetici.
Certo, perché la morte va dimenticata: quella morte sul lavoro viene definita bianca perché deve dare un’idea di candore, di leggerezza, di fatalità, e quindi di casualità e di normalità. È una morte bianca, poteva capitare, è capitata, e quindi pazienza. È questa l’idea che fa passare la normalità. Ma la normalità non va ricordata: domani ricapiterà, e quindi è una morte bianca.
E perché il lavoro nero? Il lavoro irregolare, il lavoro che è frutto di un’evasione fiscale. Perché quando c’è un lavoro nero bisogna pagare a nero, ma per pagare a nero bisogna vendere senza fattura, bisogna incassare a nero. È semplice: il lavoro nero non è altro che la conseguenza di una solida evasione fiscale.
E perché è nero? Perché nero è il buio, è la paura. Anche ai bambini si parla dell’uomo nero, tutti i bambini hanno paura del buio, poi basta accendere la luce. Ma sul lavoro nero non si vuole accendere la luce perché già è nero e non va guardato, non ti devi intromettere, non devi penetrare quella oscurità. Perché dietro quell’oscurità c’è un terzo dell’economia sommersa: secondo l’Istat sono circa 200 miliardi di euro all’anno, un terzo è rappresentato dal lavoro nero.
E non pensate soltanto a imprese o imprenditori farabutti che evadono le tasse, evadono la previdenza sociale, evadono i premi assicurativi, ed evade anche lo stesso lavoratore a nero. Ma pensate alle famiglie: l’Istat dice che il 48% dei lavori domestici in Italia è a nero, vuol dire che la metà delle famiglie, la metà di noi a casa, ha un badante, una persona delle pulizie, una babysitter a nero. La metà delle famiglie italiane.
Infine, si muore anche di retorica, perché dopo ogni strage ci viene detto "mai più", le frasi le sappiamo ormai a memoria: ci vogliono più controlli, bisogna assumere ispettori, "mai più", pene più severe. Ma poi tutto finisce. Ma anche se non finisse, comunque è la produzione della banalità sul piano economico, politico e anche giudiziario, perché anche la magistratura ha le sue colpe in questo: ha abbandonato l’interesse verso questi beni.
Davanti, in ogni occasione in cui da 2 anni sono chiamato e posso farlo, ho assunto l’obbligo con me stesso di ricordare una persona che si chiamava, e si chiamerebbe, Daouda Diane. Daouda Diane era – ed è, "era" tradisce inconsciamente un pensiero cattivo – un lavoratore ivoriano di 37 anni. Lavorava ad Acate, in provincia di Ragusa, e il 2 luglio del 2022 posta su Facebook due video da lui stesso registrati, uno in italiano, uno in francese, che potete trovare su YouTube, in cui denuncia le condizioni di lavoro in cui lavorava presso un cementificio nero.
Daouda era un ragazzo molto inserito, aveva un biglietto per tornare in Costa d’Avorio per il 23 luglio, per andare a prendere la moglie e il figlio che non conosceva, che non ha mai conosciuto, e portarli in Italia. Aveva due case in affitto, pagava regolarmente, era colto, era mediatore linguistico, conosceva tre lingue. Ma dopo aver postato quei due video alle 12:20, intorno alle 14 il suo telefono si è spento definitivamente e non abbiamo avuto più notizie.
Lavorava presso una ditta, presso un cementificio, di una famiglia che ha già alcuni precedenti specifici. Daouda Diane è stato ucciso dal silenzio, perché ancora oggi molti di voi non avevano mai sentito questo nome, ed è per questo che io ricordo questa storia: è stato ucciso, ma soprattutto qualcuno ha deciso di farlo sparire. Perché quando la mafia vuole il silenzio non ti spara, ti fa sparire, come avvenne per Placido Rizzotto, il cui corpo è stato trovato dopo 63 anni, come doveva avvenire per Peppino Impastato, con una bomba: doveva essere sfracellato, non doveva rimanere nulla, come è avvenuto per Mauro De Mauro. Perché anche il corpo, e anche un morto, è un funerale, è un simbolo, è una bara, è una tomba, e anche quello deve sparire.
Perché ricordo questo? Perché attraverso lo sfruttamento, attraverso la denuncia dell’insicurezza che fece Daouda quel giorno, noi non abbiamo saputo rispondere, lo abbiamo dimenticato.
Grazie.