Il lavoro sfruttato e povero
Le parole di Alessandro Leogrande – il sociologo tarantino morto prematuramente tanto evocato stasera e di cui tanto sentiamo la mancanza – parole che risuonano nella voce di Fabrizio Saccomanno, benché scritte sulla carta sembrano scolpite nel marmo per quanto sono dure.
Sono parole che ci interpellano.
Che ci interpellano come studiosi, magistrati, avvocati, insegnanti. O, più in generale, come cittadini ma ancor prima, e sempre, come persone, esseri umani.
Perché ci riguardano. Hanno a che fare con la nostra umanità o dis-umanità, con la nostra identità o dis-identità, e così finiscono, fatalmente, per inchiodarci alle nostre responsabilità. Responsabilità, la nostra di giuristi, la mia, in particolare, di giurista del lavoro.
Quella testa staccata dal corpo del migrante di cui ci parla Alessandro, rimanda inevitabilmente al braccio staccato di Satnam Singh, a quel braccio staccato e messo in un cassone della frutta, lo stesso cassone che Satnam Singh riempiva di frutta nell’agropontino e per il quale, dissanguato, è morto.
Queste parole, queste immagini ci inchiodano perché ci costringono, direi quasi in maniera irritante, ad un uscire dalla comfort zone che ognuno di noi si costruisce e nella quale si chiude.
Queste parole così vivide, icastiche, infatti ci sbattono fuori dalla zona d’interesse” per riecheggiare e prendere a prestito il titolo di un film potente che è uscito quest’anno nelle sale cinematografiche.
Sì “Zona di interesse” non è un film sull’Olocausto, come si legge nelle sinossi; è un film che parla di noi, di quella confort zone che siamo capaci di disegnarci attorno, tagliando chirurgicamente il resto, lasciandolo fuori, confort zone che coincide con la nostra casa, ma anche il nostro studio, un’aula giudiziaria o, addirittura, un teatro.
Quella dalla quale è possibile, come fa la protagonista del film, moglie di un generale nazista, concimare i fiori del giardino della sua casa a ridosso di un campo di concentramento con la cenere dei forni crematori, quella casa dalla quale guardare il cielo dove le nuvole si alternano agli sbuffi nerastri che vengono dalle ciminiere di quei forni, quella nella quale organizzare feste per bambini mentre grida belluine arrivano dall’aldilà della siepe...
Quindi a cento metri dall’inferno, il generale esegue semplicemente gli ordini, esegue semplicemente gli ordini, e la moglie semplicemente vive… l’uno e l’atra deresponsabilizzati rispetto a quell’inferno così vicino.
Come nel film in cui non c’è una sola immagine del campo di concentramento, così nelle nostre zone di interesse l’orrore quasi non si vede; nelle nostre case arriva il sonoro, quando arriva.
Arriva dalla televisione accesa all’ora di cena quando ormai scorgono quotidianamente le immagini dei corpi morti di bambini, in guerre, ma la giornata è stata lunga, siamo stanchi e diciamo ai nostri di bambini: “Dai mangia e passami l’acqua”, magari abbassandolo quel volume insopportabile della TV… che lo sguardo lo abbiamo già scostato.
Siamo nella nostra zona di interesse quando scegliamo il miglior bikini da sfoderare mentre ci immergeremo nelle acque di Lampedusa o Cutro… in mezzo, ancora, a corpi morti.
E allora, mi chiedo, quando è successo che siamo diventati così? Quando è successo che sia diventato possibile svegliarsi in un giorno di giugno del 2024 davanti all’orrore di un braccio staccato messo in cassone per la frutta e buttato insieme al corpo di Satnam Singh che infatti è morto dissanguato?
“Volevamo braccia e sono arrivati uomini”… questo si dice di fronte agli immigrati che hanno posto il “problema” della loro identità, delle loro persone ad un Occidente satollo che voleva solo le loro braccia: ma ora il cerchio si chiude, e ci siamo ripresi solo il braccio e buttato anche quello quando, squartato, non serve più.
Ma ancora, mi chiedo se l’orrore che sento, che sentiamo, sarà lo stesso quando ci arriverà la notizia di un altro braccio buttato nel cassone della frutta.
O forse, con il tempo, nella nostra zona di interesse l’asticella dell’orrore si abbassa naturalmente?
Non succede così? Che la nostra capacità stessa di vivere nonostante l’orrore, di vivere dentro l’orrore aumenta via via?
E quale resistenza stiamo mettendo in atto noi giuristi che abbiamo sempre a che fare con parole, terribilmente, di carta e, a volte, altrettanto terribilmente, vuote?
Le parole vuote del Diritto potremmo chiamarle...
Quali fattispecie dovrebbero soccorrerci?
Parlo per i giuslavoristi, dovrebbe forse soccorrerci la fattispecie dello sfruttamento che non è nemmeno regolata, nemmeno tipizzata forse perché impigriti dall’autoevidenza di una fattispecie che io saprei riconoscere, come tutti, ma che non saprei spiegare come dice Sant’Agostino del tempo?
So cos’è ma se qualcuno, magari qualche studente qui dentro, mi chiede di spiegarla non lo so più.
Afasìa del diritto.
Un tema quello dello sfruttamento stretto com’è tra le critiche che vengono da ogni dove, da sinistra e da destra.
Da sinistra, quella sinistra fieramente novecentesca, ci dice che lo sfruttamento è il rapporto stesso di lavoro.
E quindi quale sforzo immaginifico dobbiamo compiere nel tentare una regolazione o una qualche definizione normativa? Sfruttamento è il lavoro stesso.
E, stretto pure, da una critica che viene da destra, per così dire, che dice che il dibattito sullo sfruttamento è da “old school”, di retroguardia.
Insomma, è il capitalismo, bellezza! Adeguati anche come giurista e “Stai nel tuo tempo!” che suona un po' come “stai al posto tuo!”.
E quindi cosa rimane al diritto? Forse lo sforzo di capire se c'è uno sfruttamento fisiologico e uno sfruttamento che fisiologico non è, uno sfruttamento buono e uno quindi che non è buono. Uno sfruttamento tollerabile e uno, no.
E quando si supererebbe la soglia del “tollerabile”?
Quando, per esempio, la retribuzione del lavoratore e della lavoratrice non consente di accedere nemmeno al paniere minimo di beni, o forse la retribuzione, quella dell’art. 36 della Costituzione non deve limitarsi solo a consentire di superare la soglia minima della povertà, come ci dice la recente e tanto discussa giurisprudenza di legittimità sul tema, non deve solo garantire la sopravvivenza ma… la vita.
Questo il dilemma dei giuristi del lavoro.
Poi c’è il dilemma dei gius-penalisti. Questi ultimi, per loro conformazione, talvolta deformazione, devono aderire all'approccio opposto, a quello cioè repressivo e quindi necessariamente più formalistico, l’unico, infatti, che ha tipizzato la fattispecie.
Penso, ovviamente all’art. 603 bis del codice penale che configura una fattispecie che per essere integrata necessita della compresenza di una serie di elementi che non è detto si rintraccino.
E, quindi, quei processi penali spesso finiscono in un nulla di fatto benché sugli stessi incomba il principio di realtà.
Sappiamo che lì c'è sfruttamento, ma evidentemente mancano gli elementi integrativi di una fattispecie difettosa.
Ancora una volta, lo sfruttamento è là: lo vedo, lo tocco, lo sento sulla carne ma le parole del diritto non lo colgono, non lo sentono.
Lo sfruttamento esiste ma il diritto non lo sa dire.
Ma, peraltro, ancor prima di pensare alle condizioni che delimitano la fattispecie penale non dovremmo forse pensare che c'è un problema di precondizione e cioè di accesso alla giustizia?
Gli ultimi, quelli con la testa staccata, il braccio staccato, quei corpi nemmeno rivendicati dalle loro famiglie, dalla loro madre e dal loro padre potranno mai arrivare in un'Aula di Tribunale?
In altre parole, quegli ultimi, ultimi tra gli ultimi, non sanno nemmeno cosa sia la Giustizia, tantomeno sanno come accedervi o hanno la possibilità di accedervi.
Non sappiamo nemmeno se Paola Clemente morta di lavoro in un giorno d'estate nelle campagne pugliesi, abbia avuto una qualche forma di indennizzo. O se quella morte che è morte di fatica, morte di lavoro, non sia considerata alla fine del clamore mediatico, una morte ordinaria, una morte qualunque.
Allora cosa rimane? La rassegnazione? Rinchiudersi nella zona di interesse, concimare i nostri fiori nonostante i fumi nerastri delle ciminiere dei forni crematori là fuori?
Cosa rimane? Chiuderci nei nostri studi, scrivere la nostra sentenza, la nostra meravigliosa monografia, senza che quei corpi ci tocchino, senza che quel braccio mozzato ci schiaffeggi?
Credo sia proprio un fatto di postura, allora. Se siamo comodi sulle nostre sedie, sulle nostre poltrone o divani della zona di interesse, ci abitueremo a tutto.
Le rivoluzioni le si fanno per i vinti … per i morti, dice Alessandro Leogrande, in “Uomini e Caporali”.
È vero. Per dare loro la dignità negata ad un passo da noi. Per dare addirittura un nome a chi non l’ha avuto nel fazzoletto di terra che anche noi occupiamo.
Ma la sia fa anche per i vivi. Per dare un senso alle parole che ogni giorno maneggiamo; al lavoro che facciamo e, più in generale, alle nostre vite e a quelle dei nostri figli, dei ragazzi come tanti questa sera.
Ai tanti lavoratori poveri, sfruttati, nelle campagne della capitanata pugliese o nelle ricche zone del Barolo o delle mele trentine.
Nelle campagne così come nelle strade dove sfrecciano senza sosta uomini e donne con gli zainoni colorati pieni di cibo che consegnano a domicilio specie quando fa freddo o fuori piove.
Occorre stare scomodi sulle sedie, come diceva don Tonino Bello.
E forse solo quella scomodità che può salvarci.
Occorre cioè stare all’erta e metterci la faccia e la voce come Caravaggio nel bellissimo quadro tanto amato da Alessandro che di coraggio ne aveva tantissimo e che vedremo tra qualche minuto.
San Matteo, il cui Martirio è dipinto nel quadro, si converte... sceglie la scomodità... e Caravaggio lo dipinge e fa testimonianza di quella scomodità incarnata nel suo tempo e si auto-ritrae.
San Matteo in uno degli altri due quadri che formano il trittico meraviglioso che sta nella chiesa di San Luigi dei Francesi a Roma è seduto all’estremità della sedia, scomodo appunto, inquieto.
Come Caravaggio che sbuca, ad un certo punto, dal quadro.
Certo era frequente che il pittore facesse capolino nel suo quadro. Ma vogliamo, oggi, attribuirne anche un senso ulteriore e cioè l’esserci dell’intellettuale, del giurista nelle miserie del suo tempo.
Sia, lo stare qui stasera, il non girarsi dall’altra parte.
Sia lo stare qui esercizio di umanità, pratica del sentimento del diritto, pur nella consapevolezza onesta che deve accompagnarci di essere privilegiati anche per il solo fatto di poterne parlare.
Che sia la scomodità, allora, la postura di noi giuristi in questi tempi in subbuglio e la testimonianza, “il metterci la faccia”, la nostra pratica di coraggio, di esistenza e di resistenza.
Perdonaci Satnam.
Grazie Alessandro.
Pubblicato su Giustizia insieme il 5 dicembre 2024