Geminello Preterossi
Buongiorno, grazie dell’invito. Io torno a Bari sempre molto volentieri, poi qui ci sono tante persone amiche che sono animate da un fervore che condivido molto, fervore etico-politico.
Parlo dopo il professor Gaeta, quindi posso agganciarmi utilmente e dirò alcune cose forse un po’ scomode rispetto alle responsabilità, cioè a ciò che ha fatto sì che il lavoro non sia più al centro, sia diventato, ridiventato forse, una forma di passivazione, di dominio: si è oggetto di un dominio. Perché non è che le cose accadono per caso, non sono eventi naturali. Eh, questo è quello che cercano di dirci, di cui ci hanno convinto da 30-40 anni, una certa ideologia che, per capirsi, chiamiamo neoliberale, e cioè che non c’è la storia, non c’è la politica, tutto è naturale, oggettivo, non ci può essere alternativa, non si danno condizioni diverse, non può essere altrimenti.
Non è così, e non è stato così. Un grande studioso come Luciano Gallino, poco ascoltato, ha spiegato bene perché certe trasformazioni intervenute in campo economico e sociale, che hanno avuto un impatto politico gigantesco, sono frutto di decisioni precise, non di processi oggettivi inevitabili.
Vediamo. Già è stato detto: il lavoro non è sempre stato un soggetto sociale e politico, lo è diventato nella modernità. Qui mi appoggio sulle cose che ha detto Gaeta. Diciamo che, per dirla proprio brutalmente in sintesi, Hegel ha elaborato filosoficamente questo passaggio, Marx se n’è appropriato in chiave rivoluzionaria, e arriviamo al ‘900.
Cioè, i regimi politici di massa, perché lo Stato liberale, lo Stato di diritto liberale, non era uno Stato democratico e non era uno Stato, tantomeno ovviamente, uno Stato sociale. Era uno Stato fondato sui ceti di proprietà e cultura, cioè su una società omogenea, perché escludeva le larghe masse di lavoratori.
Siccome, in virtù della Rivoluzione Industriale, dell’emergere alla visibilità pubblica, alla vita pubblica delle masse, si pongono problemi nuovi, lo Stato liberale non regge. Se ne può uscire in due modi: con una nazionalizzazione passiva delle masse, i fascismi, oppure costruendo uno Stato pluriclasse.
Ma non è facile. Ci hanno provato a Weimar, grande laboratorio, ma non è finito bene. E sulla scia di quel laboratorio, per esempio nella Costituente italiana si è proseguita, si è presa quella strada, ma prendendo anche alcuni accorgimenti. Lo dimostra il fatto che il più grande costituzionalista italiano che era nella Costituente, Costantino Mortati, ha scritto un libricino su Weimar, ha presentato la Costituzione di Weimar e l’ha diffusa fra i costituenti, come a dire: guardate, qui c’è un esempio e c’è anche un problema che dobbiamo, un’equazione da risolvere.
E infatti la Repubblica italiana è una repubblica basata sul lavoro, fondata sul lavoro. La nostra è una Costituzione lavorista. Dite: ma perché sul lavoro? No, perché oggi effettivamente, io mi immagino i ragazzi, dico: ma lavoro? A parte che il lavoro non c’è, oppure se c’è è precario, sottopagato, comunque non gliene frega niente a nessuno. Cioè, il lavoro, ma perché il lavoro? Perché non mettiamo un’altra cosa? No, e invece non è un caso. Perché il lavoro?
Perché il lavoro è la risposta all’equazione che dicevo prima, cioè le masse che diventano protagoniste. Il lavoro è lo strumento dell’inclusione nella cittadinanza democratica, è la base di questa inclusione. Cioè, tutti i lavoratori, tutti i lavoratori devono poter partecipare, in condizioni di parità, alla determinazione dell’indirizzo politico. Non lo fanno poi tutti, questo implica la valorizzazione del lavoro e implica l’articolo 3, che la Repubblica ha unito, che è quello di rimuovere quelle condizioni di fatto che impediscono un pieno godimento dei diritti fondamentali e una piena partecipazione politica.
Cioè, la Costituzione non è la fotografia di una cosa che c’è. Come diceva Calamandrei, non solo se la lasci, non ci sono dei soggetti che la imbracciano e si propongono di realizzarla, cade per terra. Ma la Costituzione dice no all’ordine sociale esistente. Quando è stata fatta, questo era. Cioè, da un lato rifletteva delle forze emerse nella società italiana, alla fine si era aperta una finestra di opportunità rispetto al fascismo, ma dall’altro era un progetto da realizzare.
Il lavoro è la chiave. Lavoro significa anche che il compito della Repubblica è, per tutti i governi, realizzare politiche di piena occupazione. Cioè, lo Stato sociale democratico delineato dalla nostra Costituzione, o è uno Stato keynesiano o non è. Lo dico veloce: keynesiano vuol dire che occorre un intervento pubblico nell’economia e che l’economia non può, i mercati non possono prevalere sull’indirizzo politico. Da questo deriva anche che va costruito e garantito uno Stato sociale: scuola, sanità, eccetera. Ma innanzitutto politiche di piena occupazione e poi garanzia dei diritti sul lavoro.
Perché il diritto del lavoro non è una parte del diritto civile, del diritto privato, come un’altra. Non si può trattare, i grandi giuslavoristi questo l’hanno capito, non si può trattare come un negozio qualsiasi, perché c’è uno squilibrio strutturale fra le parti. I grandi giuslavoristi italiani, qualcuno anche qui proprio di Bari, hanno, sulla base di questa consapevolezza e sulla base di quello che la Costituzione prescriveva, costruito un diritto del lavoro che ovviamente prevedeva delle tutele e delle garanzie per la parte più fragile.
Tra l’altro, “fondata sul lavoro”, come molti di voi sapranno, è un risultato molto efficace, una formula di un incontro tra culture diverse: il cattolicesimo sociale, la cultura socialista e comunista, diciamo di matrice marxista. In un primo momento volevano, i socialisti e i comunisti, volevano mettere “sui lavoratori”. C’è un bellissimo discorso di Moro, straordinario, in cui interloquisce con grande apertura e anche rispetto e condivisione, dicendo: noi condividiamo la sostanza, però forse mettere “i lavoratori” potrebbe sembrare magari escludente o comunque rispetto ad altre aree o comunque eccessivamente, potremmo dire, personalante, diciamo così. Mettiamo il concetto, diciamo. E poi, anche con l’aiuto un po’ di Fanfani, un po’ di Basso, insomma, ci fu una convergenza sul lavoro, cioè sul valore lavoro, sul lavoro come valore fondante.
Già allora ci fu qualcuno che disse, di area laico-laicista, liberale-laicista, che disse: beh, magari mettiamo “sul lavoro e la libertà”. È fantastico perché ci fu un democristiano, credo si chiamasse Moscatelli, che disse: no, no, quale libertà, è ovvio la libertà qua. Noi stiamo facendo una cosa nuova, noi qui non dobbiamo ripetere e ribadire l’ovvio, noi qui dobbiamo dire la novità, e la novità è il lavoro. Cosa enorme, che dà la misura dell’abisso in cui siamo precipitati oggi, cioè nel senso che una consapevolezza del genere non c’è più e che il coraggio di dire queste cose, anche su altri temi, ad esempio la politica estera, è svanito. Forse non si riescono manco più a pensare le cose che pensavano e dicevano, non i comunisti. Io vengo dalla Toscana, da un posto dove il PCI aveva la maggioranza assoluta dei voti negli anni ’70, ma i democristiani, i cattolici sociali in modo particolare.
C’è un bel libro di Romanelli, storico liberale, pubblicato da Laterza di recente, che fa vedere bene, ricostruendo nel dettaglio, il contributo specifico del cattolicesimo sociale, naturalmente in sinergia con quella cultura socialista che dicevo.
A che è servito questa fondazione sul lavoro? È servito a costruire appunto lo Stato delle masse, evitando derive autoritarie. Però poi è successo qualcosa, perché tutto quello che è successo negli ultimi 30-40 anni va in senso contrario. Ovvero, alla fine degli anni ’70 c’è stata una svolta regressiva sul tema del lavoro e non solo. Le ragioni sono complesse, però bisogna dirlo, bisogna vederlo.
Probabilmente il motivo fondamentale è uno, e cioè che la presa in carico di quel progetto costituzionale, la sua realizzazione parziale, aveva implicato in Italia, in parte anche altrove, diciamo, comunque l’Italia era un laboratorio, una tale alterazione, un equilibrio asimmetrico tra capitale e lavoro, fra profitto e salario, che tutto ciò ha determinato, ha determinato alla fine una reazione revanscista del capitale, del profitto, contro il lavoro e contro il salario.
Questo è accaduto. Sono 40 anni che il lavoro viene svalutato, lo vogliamo dire o no? E viene svalutato da politiche precise di ispirazione neoliberale o neoliberista. Diciamo, in Europa la declinazione è l’ordoliberalismo. Eucken, non conosciuto quasi da nessuno, grande economista che ha avuto un’enorme influenza nella Germania del dopoguerra fino a oggi.
Parentesi: l’economia sociale di mercato è un raccontino che ci hanno fatto, non vuol dire che è tanto bella perché c’è il sociale, no, vuol dire che l’unica forma di inclusione sociale possibile è il mercato. Cioè, la Costituzione italiana è una Costituzione antiera, che non vuol dire che il mercato non c’è, ma vuol dire che non ha il primato.
Ma a un certo punto è successo qualcosa. Che è successo? Beh, è successo che è stato introiettato un vincolo esterno assoluto, che ha determinato delle trasformazioni costituzionali a Costituzione invariata. Ad esempio, il pareggio di bilancio, mentre la Costituzione, quella del ’48, la Costituzione materiale di Mortati, era un vincolo interno con noi stessi. E io vi chiedo: ma secondo voi un paese può vivere se non ha un patto con se stesso e si affida esclusivamente a una disciplina esterna? Non perde l’anima? Io ho l’impressione che sia accaduto questo.
In più, questa opzione, cioè dobbiamo fare come ci dice l’Europa o i mercati. “I mercati votano”. Vi rendete conto della castroneria emerita? Vi rendete conto dell’enormità del dire “i mercati votano”? “I mercati votano” è una frase o idiota o... perché non c’è una soggettività nei mercati, ma che? Forse ci sono alcuni grandi fondi internazionali che contano moltissimo e che, come dice Luciano Canfora, ci sono delle forze retroscena.
Ma dal punto di vista della teoria costituzionale, della teoria politica, è irricevibile, è inaccettabile. Come votano i mercati? È eversivo, come il “pilota automatico”, tecnicamente eversivo, perché significa dire la democrazia e la politica non contano più nulla.
Sottolineo tra parentesi che è in atto una defezione democratica: la gente non vota più, soprattutto quei ceti popolari vasti, quelle masse oramai sfatte, disfatte, di cui ci lamentiamo, no? Anche sì, però bisognerebbe vedere la causa del disfacimento del popolo. E se non vota più, vuol dire che c’è qualcosa che non va. A casa mia vuol dire che c’è una crisi di legittimazione profonda, cioè non è più un problema momentaneo, parziale, non ci piace quello ma magari ci piace quell’altro. C’è una separazione, un divorzio popolo-istituzioni.
Credo che sia passato anche fortemente dallo svilimento del lavoro, perché il lavoro è stato un fattore aggregante, un fattore di soggettività sociale collettiva. Nel momento in cui l’hai demolito, è chiaro che tu ti ritrovi con un pulviscolo che non può trasformarsi in una comunità consapevole. Eh, questo è il nodo.
Tutto ciò che è stato necessario per fare questo adattamento, diciamo, a logiche incompatibili con la Costituzione italiana, beh, non è che non abbia comportato dei prezzi. Lo devo dire, perché io, tanto chi si occupa fa il lavoro mio seriamente, ma finisce per essere un grillo parlante e dover dire le cose sgradite, ricordare le cose sgradite.
Vi ricordate quando la precarizzazione è stata venduta come un’effervescenza liberatoria, perché era flessibilità? E lo disse pure – mi dispiace dirlo, però è così – un ex Presidente del Consiglio post-comunista, il primo forse. È diventato poi per quello Presidente del Consiglio, sia per questa disponibilità a perseguire la precarizzazione del lavoro che per fare la guerra in Kosovo.
Cioè, guardate, sì, noi stiamo precarizzando perché vi sentirete, potrete, ognuno si potrà alzare la mattina, scegliere di fare un lavoro, poi un altro, poi cambiare. Ecco, questa è pura ideologia, che si è rivelata tale.
Una cosa è scegliere di cambiare lavoro, altra cosa è essere obbligati a cambiarlo costantemente e trovarsi quindi in una condizione di totale assoggettamento, perché questo implica una strumentalizzazione del lavoratore che deve adattarsi. Come si fa ad avere una stabilità, ad avere un progetto di vita, se ti viene chiesto di essere semplicemente precario, una rotellina che si adatta a ingranaggi diversi? Ci sono implicazioni identitarie personali, certamente, ma ci sono anche implicazioni collettive. È un po’ difficile che ci sia una progettualità sul futuro se viene detto: voi dovete essere semplicemente una funzione, vi dovete funzionalizzare.
E questo ha implicato la demolizione delle garanzie previste dal diritto del lavoro nella sostanza, perché il diritto del lavoro costituzionalmente orientato, come deve essere, è stato sostanzialmente demolito, diciamocelo. E allora questo non va bene.
Le cose che sono accadute non sono accadute per caso, sono il frutto di politiche. Ma via la conclusione: c’è stata, c’è stata varata, c’è oggi una nuova Costituzione economica, sostanzialmente mercatista e lavorista. Sabino Cassese, con la sua proverbiale franchezza, diciamo così, un po’ brutale, ha messo in luce con realismo come a partire dagli anni ’80 del secolo scorso si sia affermata una nuova Costituzione economica che ha scalzato la vecchia, che si era sviluppata – parole sue – “all’insegna del collettivismo”. C’era il collettivismo in Italia? Non ce ne eravamo accorti, ma c’era il collettivismo, che addirittura aveva consentito la costruzione di uno Stato parallelo – non me lo invento, sono tutte citazioni, eh, stanno nel manuale, quel libro sul diritto pubblico dell’economia che ovviamente si intitola La nuova Costituzione economica, Fortunato, più volte ristampato da Laterza.
Io sono andato a compulsare, a rivedermi l’ultima edizione di Sabino. È chiaro, quindi sono citazioni, vi do le pagine se volete. Lo Stato parallelo delle partecipazioni statali. Il dual state, cita Fraenkel. Ora, in Fraenkel il dual state era un’altra cosa, eh. Era il nazismo. Poi era parso che in Italia ci fosse stato uno Stato parallelo che ha fatto le stragi, strategia della tensione, presente? Tutta una serie di vicende pesanti che hanno determinato in maniera gravissima il corso – forse ancora la striscia ci riguarda – la vicenda italiana. E invece lo Stato parallelo era quello delle partecipazioni. E che sarà stato mai, eh? C’erano anche delle cose straordinarie, da Mattei in poi, fatte con le partecipazioni. Abbiamo visto la demolizione e la privatizzazione delle partecipazioni statali, a che grandi successi ci ha portato.
E Sabino lo dice chiaramente: una tecnostruttura ha deciso, nei primi anni ’90, di cogliere la finestra d’opportunità e farla finita con la vecchia Costituzione economica, quella prevista dalla Costituzione, e vararne un’altra, che poi era quella comunque imposta da Maastricht. Cioè, tutt’uno con Guido Carli, con la sua onestà intellettuale, lo dice nelle memorie, nel libro curato da Paolo Peluffo, lo dice chiaramente: “Ma questi si sono resi conto, i politici italiani, che hanno firmato una cosa che cambia radicalmente il quadro? Non c’è più la Costituzione economica di prima”.
Tutto questo dice: vabbè, ma a noi che ci frega? Eh no, ha conseguenze enormi, incalcolabili, di portata sociale e politica. Se si è determinato un allontanamento così radicale, viscerale, di vasti ceti popolari dalla politica e dalle istituzioni, ci sarà un motivo? Beh, uno è questo: aver adottato politiche pubbliche in campo economico e sociale antipopolari.
Questo, finché non vediamo fino in fondo questo nodo e non abbiamo il coraggio di dircelo, non capiremo nulla, compresi i contraccolpi populisti. Perché il cosiddetto populismo è nient’altro che una reazione, non la causa dei problemi, un indicatore che dovrebbe far riflettere, per poter cambiare rotta radicalmente. Ma non vedo tanto questo all’orizzonte, e questo purtroppo ci condanna, temo, a una deriva e una decadenza infinita. Poi è chiaro che a un certo punto qualcosa accadrà, temo.
Ribadisco infatti: che cosa ha comportato l’abbandono della Costituzione lavorista, l’adozione di una nuova Costituzione economica abbastanza ordoliberale o neoliberale? Tra l’altro una serie di paradossi, di contraddizioni. Siamo in mezzo al guado. Abbiamo ancora la Costituzione, per fortuna, la Costituzione formale, valida, peggiorata, eh, pareggio di bilancio, il titolo V. Però c’è, per ben due volte il popolo sovrano è intervenuto a salvarla. Però è in tensione, in contraddizione con la Costituzione, in parte almeno, con la Costituzione materiale, che è cambiata, soprattutto nella sua parte di Costituzione economica.
Questo è un problema che spiega anche le fibrillazioni istituzionali, il senso di incompiutezza di una transizione iniziata nel ’92-’93, e tutti i tentativi, anche strumentali, un po’ abborracciati, di utilizzare il cambiamento, le riforme costituzionali come modo per o trarre vantaggio o comunque adattarsi a una situazione nuova. Ma in realtà bisognerebbe fare un discorso di verità e capire dove vogliamo andare. Poi, sulla base di questo, si scelgono anche, si adottano anche delle scelte relative agli assetti istituzionali, possibilmente, come diceva Stefano Rodotà, in maniera non congiunturale.
Direi, tornando a guardare ai principi fondanti: ci crediamo ancora che la Repubblica è fondata sul lavoro? Crediamo ancora nell’articolo 3, secondo comma? Vogliamo adeguare, riadeguare le prassi, cioè fare i passi coraggiosi che questo implica, magari per smettere di dover pagare dei prezzi oramai insostenibili e che tali saranno sempre di più? Queste sono le domande.
Perché poi tutto ciò ha comportato delle conseguenze non solo sul lavoro, sulla sanità, sul fatto che l’ascensore sociale si è bloccato. Guardate che all’università non è più la situazione di un tempo, la dimensione non classista sta tornando nell’università, nella società in generale, nella scuola, e tutto spinge alla valorizzazione dei curricula privati, privatistici.
E anche nella magistratura. Io l’ho scritto e ne sono fiero di averlo scritto, anzi l’ho detto anche al Congresso dell’Associazione Nazionale Magistrati: attenti, perché la magistratura è stato un presidio della legittimità costituzionale oltre che della legalità formale. Ma attenzione a non riadattarsi alla logica monoclasse, cioè siamo un bel corpo dello Stato ben pagato, non diamo fastidio così non ci danno fastidio. Dobbiamo fare qualcos’altro.
Anche perché tutto questo, cioè quello che è accaduto in questi 30-40 anni, che ha al centro il lavoro, non è solo il lavoro, ma il lavoro è centrale, ha poi prodotto una crisi che è persino una crisi spirituale, diciamo etica, etico-politica, perché ha prodotto omologazione, passivazione, un senso di depressione sociale, l’idea che non sia possibile alcuna progettualità.
Ma io vi chiedo, e chiudo su questo davvero: ci siamo rassegnati all’idea che non ci possa essere mai più alcuna alternativa? L’alternativa sarebbe nella Costituzione fondata sul lavoro.
Grazie.