Introduzione

Massimo Giannini

giornalista

Intanto grazie davvero, mi fa molto piacere essere qui con voi questa mattina per parlare di un tema fondamentale.

Si è sempre detto, si diceva quantomeno, che il Novecento fosse stato il secolo del lavoro, ed è stato vero perché nel Novecento le più grandi conquiste che l’uomo è riuscito a portare a casa ruotano tutte intorno al lavoro. Lavoro che è stato il presupposto sul quale la civiltà occidentale ha costruito il Welfare State, che ha reso questa parte di mondo diversa da tutte le altre.

Tuttavia, questo terzo millennio è cominciato – siamo già al 2024 – su basi completamente nuove. Il patto del lavoro è saltato. Io, da questo punto di vista, la vedo in maniera molto, molto netta. La contesa – perché di questo si è trattato – tra capitale e lavoro ha visto il capitale vincere sul lavoro. Il lavoro sta cambiando, il lavoro è cambiato, ma è stato sicuramente, ed è sicuramente, la componente sconfitta da questa fase. E insieme al patto del lavoro è saltato anche il patto fiscale, perché le due cose poi sono strettamente collegate. È saltato soprattutto in Italia, ma non solo in Italia; magari su questo poi tornerò.

Per questo è importante partire da Sergio Mattarella, perché questo Presidente della Repubblica, che pure non è un combattente come altri capi dello Stato che abbiamo conosciuto in passato, senz’altro più sobrio nelle sue espressioni ed è anche, se vogliamo, sotto certi aspetti meno interventista nel conflitto politico quotidiano, però è diventato un contrappunto imprescindibile rispetto a tutto quello che il resto – quello che un tempo si sarebbe chiamato il teatrino politico – ci somministra ogni giorno.

Le cose che ha detto ieri sul lavoro, secondo me, sono di un’importanza cruciale e non per caso molti giornali – mi spingo a dire quasi tutti – le hanno ignorate. Però io vorrei partire proprio da un minimo di esegesi delle cose che ha detto il Presidente, perché al di là della frase sui salari, sulla quale torneremo, ha detto tante altre cose ancora più forti.

È intervenuto, ricordiamolo, in questo centro di orientamento per gli immigrati a Milano, e anche questo non è un caso. Il Presidente parla, e ha parlato anche il giorno prima, dell’importanza della solidarietà, ricordando che cosa è stata l’Italia nel dopoguerra. L’Italia è nata ed è fiorita, possiamo dire così, grazie all’immigrazione e all’emigrazione, e lo ha detto negli stessi giorni in cui, dal punto di vista delle politiche migratorie, questo governo – in accordo, bisogna dire, anche con altri paesi dell’Unione Europea – prendeva decisioni a mio parere più che discutibili, inaccettabili.

Ieri ha parlato del lavoro in questi termini. La Costituzione, dice Mattarella, invita istituzioni e società a rendere il lavoro sicuro, contrastando le morti e gli infortuni. Anche su questo tornerò dopo, perché una zoomata sulle cosiddette “morti bianche”, che giustamente non vanno chiamate così, però è doverosa: una piaga intollerabile, ancor più nel tempo dei più grandi progressi tecnologici e dei più grandi avanzamenti della conoscenza che la storia dell’uomo abbia mai conosciuto. La vita delle persone vale immensamente più di ogni profitto, interesse o vantaggio produttivo. E già qui, come vedete, c’è uno scoglio enorme nel flusso impetuoso dell’onda che ci sta travolgendo, perché di nuovo, anche qua, il profitto vince sull’uomo.

E qui parlano i dati, non lo dico neanche io: i dati dell’OCSE ce lo dimostrano. Nell’ultimo decennio, parliamo in senso generale dei paesi industrializzati, il volume dei profitti è cresciuto in maniera incredibile, del 28%, mentre i salari sono tendenzialmente rimasti stabili. Non solo. Ora facciamo anche qui un focus sull’Italia. Se vogliamo una prova di come i diritti del lavoro siano stati conculcati o ignorati anche dal punto di vista fiscale rispetto ai profitti, ci basti considerare che nel nostro Paese il lavoro è tassato fino al 43% – il lavoro dipendente – la rendita, cioè l’investimento azionario o obbligazionario, è tassata al 12,5%, e il capitale è tassato al 20%, meno della metà. Io non dico questo per dire che bisogna punire le aziende, ci mancherebbe altro: senza aziende non c’è crescita, non c’è sviluppo e non c’è neanche lavoro. Ma qui c’è una sproporzione spaventosa, come è evidente.

Andiamo avanti. Aggiunge Mattarella: “È la persona, ogni persona, cuore e fine dell’ordinamento democratico, che tiene uniti i propositi di piena libertà e di effettiva uguaglianza. La centralità del lavoro presuppone la centralità della persona umana, della dignità, della dignità della persona. Il lavoro è indubbiamente un caposaldo. Il lavoro è condizione di indipendenza economica, e non soltanto: è una leva per accrescere i diritti individuali e collettivi. Così è stato nella storia della nostra Repubblica”.

Possiamo dire che così oggi lo è molto meno. Non voglio dire che non lo sia più, ma lo è molto meno. E anche qui i fatti parlano da soli, parlano chiaro. Quando un amministratore delegato di un gruppo industriale importante ottiene ogni anno, tra bonus e retribuzione, mille volte tanto lo stipendio di un suo dipendente o di un suo operaio, voi capite che la tutela della persona, il primato della persona, è declinato in modo del tutto arbitrario. C’è persona e persona.

Naturalmente io non sono tra coloro che pensano che, in maniera diciamo post-sovietica, debba esserci un livellamento e un appiattimento che ci fa tutti uguali. Non siamo tutti uguali, almeno dal punto di vista delle qualifiche professionali. Lo siamo e lo dobbiamo essere dal punto di vista dei diritti, questo senz’altro. Ma il merito va premiato. Ma mille volte tanto? Mille volte tanto! E questo, badate, cito un caso che riguarda il nostro Paese, l’amministratore delegato di Stellantis. Ma se andiamo negli Stati Uniti è anche peggio: sono duemila volte tanto. Perché quando imprenditori pure importanti e illuminati – non sempre – nella Silicon Valley, nella California, avamposto e frontiera di ogni innovazione, hanno un patrimonio personale che eguaglia il prodotto interno lordo di Paesi come il Messico o come la Danimarca, voi capite che qualche cosa non va. Voi capite che, appunto, la dignità della persona e l’uguaglianza tra le persone ormai si è andata a far benedire.

Ma vado avanti, sempre su Mattarella: “Il lavoro è stato il motore principale dello sviluppo del Paese e della crescita umana, civile, sociale, culturale, che ha consentito una diffusa emancipazione da condizioni di povertà e subalternità. Con il lavoro, l’apporto decisivo delle organizzazioni dei lavoratori si è costruito il Welfare italiano, elemento basilare dei diritti di cittadinanza”.

Sacrosanto, ma di nuovo oggi sempre meno vero. Anche qui i dati parlano chiaro: del disastro della sanità ormai credo che siamo tutti non solo informati ma vittime, lo vediamo e lo viviamo ogni giorno. La stessa cosa si può dire della giungla previdenziale, per la quale spendiamo qualcosa come il 15% del nostro prodotto interno lordo. La popolazione invecchia, sappiamo il disastro demografico che ci sta attraversando. Sappiamo anche che, in virtù dell’evasione fiscale non solo tollerata ma incentivata e in qualche misura premiata attraverso il ricorso a condoni sistematici, l’importanza del Welfare di cui parla Mattarella sta saltando in aria anche questa. Perché senza le tasse non c’è Stato sociale. Senza le tasse, che un ministro qualche anno fa – compianto, non c’è più – Tommaso Padoa-Schioppa definiva “bellissime”, forse con troppo entusiasmo, d’accordo, ma senza quelle tasse noi non possiamo contare più su alcun servizio universale garantito dalla mano pubblica.

La consideriamo un plus nella vita che facciamo ogni giorno? Credo di no. Ma allora, se non lo consideriamo tale, dobbiamo stare attenti: l’evasione fiscale andrebbe combattuta con ferocia. Dobbiamo invertire la tendenza secondo la quale pagare le tasse è un maleficio. Purtroppo è un dramma che ci portiamo dietro da quando è nato lo Stato italiano. L’Italia non doveva nascere come Stato, siamo un po’ rimasti da questo punto di vista. Alla fine dell’Ottocento, nei primissimi anni Venti, un grande pensatore liberale, Piero Gobetti, già allora diceva, ricordando la complessità e la criticità che ha accompagnato la nascita dello Stato unitario: “Gli italiani pagano le tasse bestemmiando lo Stato”. Abbiamo continuato a farlo, purtroppo, perché da questo punto di vista non siamo molto migliorati. Ma la politica non ci ha molto educato, ed oggi ci sta...

[Musica]

A me sembrano sinceramente un po’ troppi.

Vado avanti su Mattarella: “I dati dell’occupazione nel nostro Paese segnano una crescita che conforta. Tuttavia, l’occupazione, non solo nel nostro Paese, si sta frammentando tra una fascia alta in cui a qualità e professionalità corrispondono buone retribuzioni, mentre in basso si creano sacche di salari insufficienti, alimentate anche da part-time involontario e da precarietà. Si tratta di un elemento di preoccupante lacerazione della coesione sociale”.

Queste parole andrebbero scolpite nel marmo e ricordate con forza a chi, anche in questi giorni, ad ogni dato ISTAT che certifica un positivo – non sono qui a dire che non vale niente – aumento dello zero virgola del nostro tasso di occupazione, ci dice: “Stiamo facendo la storia”. No, non stiamo facendo la storia, siamo soverchiati dalla cronaca, e la cronaca dice appunto che questo tasso di occupazione che cresce, la base occupazionale che si allarga, fa i conti intanto con un calo delle ore lavorate. Quindi è un risultato statistico quantomeno falsato. Ma poi soprattutto fa i conti con il lavoro povero. Perché nei dati sull’occupazione ufficiali viene registrato come posto di lavoro nuovo o perdurante anche quello di chi ha un contratto di lavoro che dura una settimana. Una settimana! Quello risulta per l’ISTAT un lavoratore occupato, e vi assicuro che ce ne sono tanti, un milione almeno. La stessa cosa vale per tutti coloro che oggi – e sono anche qui la stragrande maggioranza – vivono di salari che, al netto delle tasse, raggiungono a malapena il migliaio di euro al mese. Qui mi torna in mente e ripropongo il tema degli amministratori delegati, invece, che prendono mille volte tanto. Ma appunto di questo non ci occupiamo.

Senza considerare – qui torniamo al discorso che facevamo prima – quello dei salari, e anche questo lo ricordavo: profitti in crescita esponenziale ormai da anni, salari fermi. Non solo fermi: se facciamo ora un raffronto da quello che succede in Europa – concentriamoci solo sull’Europa e non sui paesi industrializzati tutti quanti, quindi dati Commissione Europea – l’Italia, c’è da mettersi le mani nei capelli. L’Italia ad oggi ha stipendi che sono scesi del 10% se si tiene conto dell’andamento dell’inflazione degli ultimi due anni. Il dato reale degli stipendi è un segno meno. In Francia e in Germania gli stipendi sono cresciuti negli ultimi cinque anni rispettivamente del 15% e del 20%. Questo è il dato oggettivo.

Continuo con Mattarella: “La Costituzione non ha soltanto affermato il diritto al lavoro, ha posto il lavoro a fondamento della Repubblica democratica. Una scelta lungamente meditata, fortemente voluta, capace di unire le diversità, concepita come pietra angolare della comune convivenza, come radice significativa del modello sociale. La formulazione dell’articolo 1 trovò il più largo consenso e da sola spiega la differenza, il salto di qualità che avvenne con la scelta repubblicana. La parola ’lavoro’, con i suoi derivati, è citata in 15 articoli della Carta. Nello Statuto Albertino il termine ’lavoro’ era presente una volta soltanto, all’articolo 55, e non per enunciare diritti o prerogative dei cittadini lavoratori, ma soltanto per indicare che alle giunte interne alla Camera erano affidati i lavori preparatori della proposta di legge. Costantino Mortati, grande giurista che della Costituzione è stato protagonista autorevole, indicò l’intesa sull’articolo 1, la scelta di porre il lavoro alla base della democrazia da costruire, come una connessione di tipo nuovo tra la società e lo Stato. Condividere l’idea del lavoro come fondamento voleva dire avviare un percorso di ricomposizione della base sociale e dell’unità anche morale del Paese, un percorso nel quale la democrazia alimenta equità e libertà, una libertà uguale, una dignità uguale”.

Magari fosse vero, ne parlerò dopo. Non c’è nulla di più inattuato della Costituzione italiana, nulla, a partire proprio dal tema del lavoro. Ma poi ci sono tanti altri argomenti, ripeto, ne farò un cenno soltanto dopo.

Concludo su Mattarella. L’ultima sua notazione mette il dito nella piaga di una piaga più grande: “Stabilisce anche la nostra Costituzione, all’articolo 37, che la donna lavoratrice ha gli stessi diritti e, a parità di lavoro, deve avere le stesse retribuzioni che spettano ai loro colleghi di genere maschile. Sappiamo che il cammino per giungere al rispetto di questo principio è tuttora da concludere, ma va ricordata questa prescrizione e il conseguente dovere delle istituzioni di operare per renderla ovunque effettiva”.

Bene, anche qua stiamo parlando di qualche cosa che rappresenta una chimera. Mai, credo, come nel lavoro le differenze, il gender gap, come si chiama, di genere, sono scandalose. E a che cosa ci serve una politica che, rispetto a questo dramma, non trova di meglio da fare che dare soldi alle mamme? La donna ha valore in quanto dona, regala figli alla patria. Non è questa la via. Non è pagando, dando bonus alle mamme, che si consente alle donne di emanciparsi e di crescere. Bisogna agire su questi gap, sia salariali sia ambientali, se posso dirlo. Perché al di là delle retribuzioni, le donne incontrano limiti giganteschi in tutti i luoghi di lavoro. Non sono di tipo economico, sono di tipo etico, morale, comportamentale. Ma se non si agisce su questo e si continua invece a ritenere che l’unico valore della donna è quello della madre, noi non usciremo mai da questo incubo, su Mattarella smetto. Voglio fare una zoomata sugli incidenti e le morti sul lavoro, che sono, credo, l’esempio tangibile di come il lavoro è stato tradito in questi anni. Se ne sono andati l’anno scorso altri 700. Quest’anno, tra gennaio e ottobre, e anche di questi poveri cristi, passato il cordoglio, esaurito lo sdegno, sbollita la rabbia, è rimasta e rimarrà solo un’immagine incorniciata in salotto, come hanno cantato inutilmente Stefano Massini e il figlio di Enzo Jannacci a Sanremo. Ve lo ricordate? “Forse un lampo mi portò via, e di me non resta che una fotografia”, una splendida canzone dedicata alle vittime del lavoro, con i morti nei cantieri edili e nelle centrali elettriche, nelle grandi industrie siderurgiche, nelle piccole imprese tessili.

Ma le diciamo davvero le parole? Il lavoro che porta sottoterra, e l’operaio che muore come in guerra. E insieme celebriamo le esequie di quella che io chiamo la grande ipocrisia. Di fronte a una strage infinita, il rito ormai è sempre lo stesso: quando la tragedia si fa attiva, quando crepano in tanti bruciati vivi in un’acciaieria o travolti da un treno, allora si svegliano i telegiornali, si mobilitano i sindacati e si crucciano i partiti. C’è sempre questo cuore d’Italia che da Palermo ad Aosta, come cantava il grande De André, si leva in un coro di vibrante protesta. Ma è un cuore peloso. Dei morti del lavoro non frega niente a nessuno. Li piangono le famiglie, e per sempre, ma per il resto sono solo un dolente comunicato di giornata, una variante estemporanea del palinsesto televisivo.

Non sappiamo mai granché sulle cause degli incidenti, aspettiamo sempre le procure. Sappiamo il nome dei caduti, sappiamo che molti sono stranieri, perlopiù rumeni, ma anche egiziani, indiani, come succede spesso quando c’è fatica, sudore e spesso anche sangue. Perché anche questo dobbiamo dirci: i lavori più faticosi non li facciamo, li facciamo fare a loro, salvo poi gridare all’invasione.

E come al solito sentiamo i sindacalisti attaccare le aziende appaltanti, perché quasi sempre sfruttano microimprese in subappalto, e gli uccisi e i feriti lavorano in nero o hanno contratti di categorie inferiori a quelle dovute, perché così le aziende pagano salari più bassi. Ma cambia qualcosa? È cambiato qualcosa nel Bel Paese in tutti questi anni di mattanza infinita, nei quali muore un lavoratore ogni 8 ore? Un lavoratore ogni 8 ore, tutti i giorni.

Chiedete cosa è cambiato ad Antonio, Roberto, Angelo, Bruno, Rocco, Rosario, Giuseppe, martoriati dal fuoco della ThyssenKrupp in un maledetto turno di notte tra il 6 e il 7 dicembre 2007. Poi chiedetelo anche a Marco, Bobo, Filippo, venuti giù da una gru a Torino devastata dai 100.000 ponteggi del Superbonus e del bonus facciate, in un’alba dannata del 18 dicembre 2021. E ancora chiedetelo a Michael, Giuseppe, Saverio, Peppe, Kevin, maciullati da un locomotore a Brandizzo mentre manuten evano i binari in una sera nera del 31 agosto 2023. O infine chiedetelo alla povera Luana D’Orazio, aveva 22 anni, mamma di un bimbo di cinque, divorata dal suo orditoio a Prato, divorata letteralmente dal suo orditoio a Prato il 9 maggio 2021. Genitori risarciti con €60.000, azienda multata con €1.000, e amen.

Insomma, chiedete a tutte le anime che ora popolano l’immenso cimitero dei diritti, dove le abbiamo sepolte insieme alla dignità, alla civiltà e alla solidarietà, e insieme alla Costituzione soprattutto, come dicevo prima, quella fondata proprio sul lavoro, e sul lavoro dimenticata, offesa e tradita.

L’unica istituzione credibile che lo può gridare è il Quirinale. Come abbiamo detto prima, Sergio Mattarella lo ripete da anni. Al di là di quello che vi ho riletto poco fa, “morire sul lavoro è un oltraggio alla nostra convivenza”, l’ha detto il primo maggio; “la sicurezza non è un costo, è un dovere, dobbiamo combattere questo flagello e non stiamo facendo abbastanza”, l’ha ribadito il 13 settembre in una lettera alla ministra Calderone; “le morti sul lavoro feriscono il nostro animo, le persone nel valore massimo dell’esistenza, la società nella sua interezza. Da tutti voi dipende la vita di madri, padri, figli, lavoratrici e lavoratori che, finito il proprio turno, hanno il diritto di tornare alle loro famiglie”, l’ha ripetuto l’8 ottobre nella Giornata nazionale per le vittime del lavoro; “morire in fabbrica, nei campi, è uno scandalo inaccettabile per un Paese civile, un fardello insopportabile per le nostre coscienze”, lo ha urlato ieri a Milano, come abbiamo sentito poco fa.

Prediche inutili quelle del Presidente della Repubblica. “Le prediche inutili” è una formula che coniò nel dopoguerra Luigi Einaudi, ma vale ancora oggi. Appelli traditi anche i suoi. La prima a tradire è l’impresa, l’impresa grande che il lavoro lo frammenta e lo sottopaga, considerandolo ormai una commodity al pari di una materia prima o di una macchina utensile, sempre fungibile e sacrificabile sull’altare del profitto lucrato a qualunque prezzo e del ricavo ottenuto col ribasso dei costi. È l’impresa piccola che opera sotto la soglia minima delle gare pubbliche, in quella zona grigia dell’affidamento privato, quella che sminuzza l’appalto e lo sparge tra tanti padroncini minori, in una terra incognita dove si trascurano le regole e si spartiscono le commesse, si risparmia sui costi e inevitabilmente si trascura la sicurezza.

Ma la seconda a tradire è la politica, che mente e parla a vanvera ogni volta dopo la tragedia. Messaggi contriti da tutti i presidenti del Consiglio di turno, le presidenti del Consiglio di turno, le destre e le sinistre. Ma a parte le chiacchiere, cosa hanno combinato di serio per curare questa piaga che con pigro cinismo chiamiamo ancora “morti bianche”? Sul nuovo codice degli appalti Meloni e Salvini possono offendersi quanto vogliono per le accuse di Maurizio Landini, ma è un fatto che i “patrioti al potere” hanno voluto a ogni costo liberalizzare il sistema, alzando la soglia sotto la quale si può eseguire un’opera a trattativa privata, subappaltandone a piacere singole parti, come abbiamo detto.

Sul sistema dei controlli gli organi di vigilanza denunciano da decenni una drammatica carenza di ispettori. La riforma Renzi del 2015 ha paralizzato il settore, istituendo un unico Ispettorato Nazionale del Lavoro che aggrega le competenze di INPS e INAIL, deve vigilare su tutti i settori produttivi e non può assumere nuovi ispettori, ridotti ormai a poco più di 200 su tutto il territorio nazionale.

Sugli indennizzi per le famiglie delle vittime del lavoro siamo al paradosso. L’ho raccontato prima il caso di Luana D’Orazio. Il governo Prodi istituì meritoriamente un fondo nazionale nel 2007, che dal 2010 fu progressivamente rimpinguato fino ad arrivare al picco della capienza nel 2012 con 12 milioni e mezzo stanziati dal governo Monti. Da allora solo tagli verticali, lineari e trasversali: solo 3 milioni tra governo Letta e governo Renzi. Poi gli ultimi rifinanziamenti: 7 milioni e mezzo con il governo Conte bis nel 2021, 9,8 milioni col governo Draghi nel 2022. Con Meloni erano tornate le forbici: a giugno 2023 fondo dimezzato, 5 milioni e mezzo, poi tra proteste esterne e pressioni interne alla fine sono saltati fuori altri 5 milioni. Peccato però che intanto è stato limato il tetto ai risarcimenti dell’INAIL da 6 a 4.000 euro per i minimi e da 22.400 a 14.500 per i massimi, ed è stato abbattuto da 16 a 10 ore la formazione obbligatoria per le aziende più a rischio, quelle che operano nello smaltimento dei rifiuti, nell’edilizia, nella sanità, nella lavorazione dei metalli.

Così deprediamo il lavoro, strumento millenario di emancipazione di massa e di classe, diritto fondamentale che trasforma il singolo individuo nel cittadino della polis, cuore pulsante del patto costituzionale e generazionale. Così periscono i lavoratori, sfruttati dalle mosche del capitale, ingannati dalle maschere della politica. Dunque, sentite condoglianze e solenni promesse, commossi funerali e scioperi generali, e avanti così fino al prossimo lampo.

Ora vorrei concludere tornando alla Costituzione, ma da un altro punto di vista. Dicevo prima che – prima di questo – lo mutuo da un discorso meraviglioso che ha fatto una persona straordinaria, che io considero patrimonio dell’umanità, Liliana Segre, che in Senato, all’avvio del dibattito sul disegno di legge di revisione costituzionale che prevede l’elezione diretta del Presidente del Consiglio, ha detto una cosa che anche questa andrebbe scolpita nel marmo, e cioè, intanto una formula bellissima: “Io non voglio e non posso tacere”. Poi ha aggiunto: “Prima di cambiarla, la Costituzione, o di manometterla” – aggiungo io – “pensiamo ad attuarla”. La Costituzione italiana è inattuata nella sua massima parte.

Ma ora però voglio dire due parole sulla manomissione. Che conservarla e attuarla va bene, è la logica di chi ha a cuore la democrazia costituzionale e repubblicana che abbiamo, in questi decenni, con tutti i suoi limiti – stiamo rimpiangendo un’età dell’oro? Quello che abbiamo alle nostre spalle è stato in larga misura deprecabile da molti punti di vista, si sono alternati tanti governi di centro, di sinistra, governi tecnici, non sto dicendo che tutto questo era meraviglioso, ci mancherebbe altro. Però oggi qual è il punto e perché è importante discutere di queste cose, cercando di sensibilizzare l’opinione pubblica su questi argomenti? Perché è in atto un processo che mira palesemente a riscrivere su basi nuove e diverse la Costituzione repubblicana. Nuove e diverse significa, intanto, dal punto di vista storico, rimuovere l’importanza dell’antifascismo che è stato alla base della nascita della Repubblica italiana. Quello ormai è un interdetto, messo tra parentesi. Ora quello che va di moda, che si deve imporre anche nella narrazione, è l’afascismo, con la “a” davanti. Non siamo antifascisti, siamo afascisti. Questo serve a riscrivere la Costituzione da parte di una destra che nell’arco costituzionale non ha mai voluto partecipare né entrare. Ricordo sempre che per Giorgio Almirante la regola fondamentale era “non restaurare, non rinnegare”. Questo è stato il Movimento Sociale Italiano. Da lì siamo arrivati all’oggi, e dunque all’afascismo. Non possiamo dirci antifascisti? No, antifascisti no. Questa è la premessa fondamentale.

Ma per riuscire in questa operazione da parte di una forza politica che oggi governa il Paese e che non ha partecipato alla nascita della Repubblica e alla scrittura della Costituzione, perché stava dall’altra parte – possiamo dirlo senza offendere nessuno: la parte sbagliata della storia – bene, oggi quindi la necessità è quella di riscriverla questa Costituzione, tenendo conto che governano quelli che allora stavano dall’altra parte, e quindi la devono rimuovere questa cosa. E come si fa a rimuoverla? Intanto omettendo e cancellando tutto il tema dell’antifascismo. Ma poi soprattutto riscrivendo le regole della convivenza democratica a partire da due temi fondamentali, anzi direi da tre, che costituiscono il patto scellerato che tiene insieme questa maggioranza.

L’elezione diretta del Presidente del Consiglio, una cosa che sta a cuore a Fratelli d’Italia, presidenzialisti da sempre, ma nella versione più autoritaria del presidenzialismo. Perché il presidenzialismo esiste anche altrove, ma da nessuna parte come ce lo vogliono imporre qua, cioè eleggendo direttamente il Presidente del Consiglio, cosa che nessuno fa in nessun Paese occidentale e neanche nei Paesi dell’Africa subtropicale. Il premierato è rischioso perché, come sappiamo e come ha detto Liliana Segre, riscrive la nostra Costituzione facendo saltare totalmente quel bilanciamento dei poteri che è garanzia della tutela delle minoranze e dell’esercizio e dell’agibilità dei diritti da parte di tutti.

Il Presidente della Repubblica, con un’elezione diretta del Presidente del Consiglio, diventa – anche se nella legge non c’è scritto, infatti loro dicono “ma quando mai noi tocchiamo i poteri del Presidente della Repubblica?” – non c’è bisogno di toccarli, perché basta eleggere direttamente il Presidente del Consiglio che immediatamente ha una legittimazione e una forza completamente diversa rispetto a quella del Presidente della Repubblica, ancora eletto, poverino, dal Parlamento. E non per caso chi oggi siede a Palazzo Chigi dice, per giustificare il sì a questa riforma: “Ma volete ancora che a decidere chi deve governare questo Paese siano i partiti? No, dovete essere voi.” Bene, voi decidete chi deve governare il Paese, poi i mentecatti dei partiti continuano a decidere chi deve fare il Presidente della Repubblica, e voi pensate che quindi in questo modo ci sia bilanciamento tra i due poteri? Chiaramente no. Uno è il capo di tutto, l’altro è un re travicello.

Per non parlare del Parlamento medesimo, che già ora è ridotto a votificio, come sappiamo. Non c’è un solo provvedimento di legge di iniziativa parlamentare che ha visto il traguardo negli ultimi anni. Qui, ripeto, non parlo di una tendenza di oggi, va avanti così da anni, i governi, ripeto, anche quelli di sinistra. Però oggi con questa riforma questo meccanismo verrebbe scritto nero su bianco, cioè il Parlamento conta più niente, perché basta che io prendo la maggioranza, e in questo aiuterà – barra aiuterebbe – una riforma della legge elettorale ipermaggioritaria che ricorda la legge Acerbo del ’23 o quella del ’24 che portò al plebiscito di Mussolini. Bene, in queste condizioni la maggioranza prende tutto: il Presidente del Consiglio ha maggioranza piena perché con il premio ottiene più del 55% dei seggi in Parlamento, si elegge il suo Presidente della Repubblica con quella maggioranza parlamentare, elegge – nomina, già ci stanno provando con la riforma non ancora passata – i giudici della Corte Costituzionale, che a noi sembra una cosa da poco. Forse gli italiani non sono al tema perché pensano che la Corte sia una simpatica congrega di vecchi parrucconi che si occupano di temi che non ci riguardano. La Corte Costituzionale è uno degli organi di garanzia più importanti della nostra Repubblica, perché stabilisce e decide e poi sanziona il rispetto delle leggi del governo al dettato costituzionale. Vi pare poco? È fondamentale. E non a caso, guardate un Paese che in questo momento noi tutti stiamo considerando tecnicamente criminale, pur amandolo tantissimo – io sono tra questi – Israele. Bene, prima che scoppiasse la guerra, dopo quell’orribile pogrom del 7 ottobre, il popolo israeliano era sceso in piazza per 40 domeniche consecutive per difendere la loro Corte Suprema, che è il corrispettivo della nostra Corte Costituzionale, da una riforma che il governo Netanyahu aveva presentato, che poneva quella Corte Suprema sotto il controllo del governo. E l’intero popolo israeliano si è mobilitato per un anno intero per dire “No, giù le mani dalla Corte Suprema”, e io dico giù il cappello a quell’opinione pubblica. Sarebbe bello se la stessa sensibilità e la stessa capacità di mobilitazione ce l’avessimo noi qui.

Ora, l’ultimo aspetto – il secondo aspetto che voglio sottolineare a proposito delle riforme, e detto a Bari credo che abbia un’importanza ancora maggiore. Questa non è una riforma costituzionale, è una legge ordinaria che è stata già approvata dal Parlamento e che si chiama autonomia differenziata. Siccome si vergognavano di chiamarla come avevano fatto nel 2006 – e lì per fortuna l’Italia gli disse di no – “devolution”, adesso hanno trovato una formula, diciamo, più gradevole: autonomia differenziata. Ma è la stessa cosa, è la stessa cosa. Una legge che attribuisce potenzialmente più di 20 materie alle regioni, togliendole allo Stato. Materie essenziali, dalla scuola alla sanità, al commercio con l’estero, ai trasporti. Cos’è, cos’altro è se non una cosa che spacca a metà il Paese? E questa la vuole la Lega, perché vedete che ciascuno sul piatto della coalizione ha messo la sua fiche. Dicevo: Fratelli d’Italia, l’elezione diretta del Presidente del Consiglio; la Lega, l’autonomia differenziata, la secessione dei ricchi è stata definita, ed è vero. Non lo dico io, lo dice la Fondazione Gimbe, che è un centro studi terzo, autonomo, indipendente dalla politica, che studia tutte le dinamiche relative al nostro Servizio Sanitario Nazionale. Con questa riforma – ripeto, già passata perché è una legge ordinaria, ora manca la fase attuativa – almeno 75 miliardi di risorse verrebbero trasferite dalle regioni più svantaggiate del Sud alle regioni già più ricche del Nord. Ditemi voi se questo non è un patto scellerato.

Aggiungo l’ultima cosa altrettanto scellerata, ed è l’ultima fiche, quella che ha messo sul tavolo della coalizione Forza Italia, che è la riforma della giustizia. La quale riforma della giustizia ha due obiettivi fondamentali. Il primo è quello di far tacere i magistrati una volta per tutte. Cioè questo governo sta riuscendo a fare quello che non era riuscito a fare nemmeno Berlusconi all’apice della sua... Tutto quello che Berlusconi ha provato a mettere in campo, questo governo man mano, piano piano, con un ministro stravagante come Nordio, però lo sta facendo. I magistrati, l’ultimo contropotere rimasto, dopo aver ridicolizzato il Presidente della Repubblica, messo a tacere la Corte Costituzionale, umiliato il Parlamento, ecco, restava la magistratura, e dunque bastoniamo la magistratura: separazione delle carriere, responsabilità civile, tutto quel che ne consegue. No, i magistrati si devono allineare.

Collegata a questo l’ultimo aspetto di cui vi parlo – dico collegato perché è parte della riforma della giustizia – c’è il modo in cui si interviene sulle intercettazioni e sui reati dei cosiddetti colletti bianchi. Eliminato l’abuso d’ufficio, quindi una giustizia... Tutto quello che vi sto dicendo non è che lo invento io, andate a vedere i testi: sono leggi o riforme della giustizia che non hanno niente a che vedere con l’interesse del cittadino. Nessuna di queste norme, nel momento in cui dovreste avere la sventura di trovarvi coinvolti in un processo civile o penale, alleggerirà il fardello che vi portate sulle spalle, né in termini di burocrazia né in termini di tempi. Nessuna di norme. L’unico obiettivo è proteggere le classi dirigenti. Lo so che il tema dell’abuso d’ufficio è delicato e chiama in causa anche molti sindaci, trasversalmente, che – la paura della firma che vi era collegato – capisco, riguarda molti aspetti dell’attività di un amministratore pubblico locale. Però abolirlo? Persino la Commissione Europea dice: “No, fermatevi, non si può abolire l’abuso d’ufficio”. Anche perché insieme a quello ci abbiamo aggiunto anche la riforma del traffico di influenze, proprio per lasciare più tranquilli i colletti bianchi, no? Ecco quindi una giustizia per i potenti e non per i cittadini.

Collegata a questa – ecco l’ultimo aspetto e poi davvero mi taccio, scusate se sono andato troppo lungo – ma l’informazione. Tra le norme previste alla cosiddetta, sedicente riforma della giustizia, nelle sue più diverse articolazioni, c’è quella che la pubblicazione delle ordinanze di custodia cautelare, nelle quali è quasi sempre contenuto, oltre alla ricostruzione delle dinamiche del reato, anche la documentazione relativa agli elementi di prova che lo suffragano, e dunque intercettazioni ambientali, telefoniche e così via, bene, di quella roba lì i giornalisti non possono né pubblicare più nulla, ci si deve accontentare della sintesi dai magistrati che stendono il provvedimento. Voi capite che anche qua, se poi ci aggiungiamo l’occupazione manu militari dell’informazione del servizio pubblico, noi siamo di fronte a un altro dei contropoteri che viene messo a tacere e viene silenziato: giornali, giornalisti. Noi facciamo tanti errori, non voglio fare della mia categoria un manipolo di eroi, ci mancherebbe altro, ma ricordo sempre quello che diceva Joseph Pulitzer, che è stato il primo e più grande giornalista americano, al quale poi è stato intitolato il premio che tutti conoscete. Nei primi del ’900 diceva: “La democrazia e la libera stampa progrediranno o moriranno insieme”. Ecco, qui non dico che si voglia far morire, sicuramente si vuole mettere a tacere la libera stampa e la libera informazione, e con ciò stesso, in base al paradigma di Pulitzer, si svilisce la democrazia.

Chiudo quindi su questo per tornare alla Costituzione: piuttosto che aggredirla e rimetterla in discussione, attuiamola, e il modo migliore per farlo è ripartire dal lavoro.

Grazie.

Momenti di riflessione
direttrice Radio Radicale
professore di Diritto del Lavoro - UNISI
professore di Filosofia del Diritto e Storia della Dottrine politiche - UNISA
Presidente Società Psicoanalitica Italiana