Saranthis Thanopulos
Penso che avremo la possibilità di parlare, forse approfondire, il discorso sul desiderio che effettivamente lega l’attesa con l’inatteso, quindi quello che viene dalle stelle ed è centrale. Non lo sviluppo molto qui, anche se è uno dei miei campi preferiti di lavoro di analisi. Però penso che comprenderete bene di cosa sto parlando.
Voglio dire che, per la mia formazione analitica, non sono abituato a parlare di cosa bisogna fare, perché più delle volte si tratta di capire che cosa effettivamente stiamo facendo. Diffido molto di quel “cosa fare”. Che cosa possiamo dire su quello che facciamo, che dobbiamo fare se stiamo facendo una cosa e non ce ne accorgiamo, se siamo impegnati in una direzione e non ce ne accorgiamo?
Allora dedicherò un po’ di spazio, se mi permettete, al concetto di identità, perché è molto controverso, può dire cose molto diverse, perfino opposte tra di loro. Allora, Francesco Remotti, che è uno dei più grandi esperti italiani, teorico dell’identità, ne ha dato questa definizione: “L’identità di una cosa è ciò che di essa permane nel tempo e ciò che le è proprio e non è divisibile con altre cose”. La definizione è sicuramente bella e impeccabile sul piano descrittivo se consideriamo la cosa in sé stessa, ma diventa insufficiente se la consideriamo all’interno delle sue relazioni, perché l’identità di una cosa è sempre il prodotto del suo rapporto con le altre cose del mondo. Questo rapporto tra le cose esiste solo all’interno di una reciproca determinazione, così che ogni cosa è sempre autodeterminata e eterodeterminata.
Ma l’autodeterminazione non ha nessun senso fuori dalle eterodeterminazioni. L’identità nel tempo è una proprietà che vive sempre all’interno di un sistema di condivisione. L’identità non corrisponde a ciò che è immutabile in noi, ma alla persistenza piuttosto che alla permanenza del nostro modo originale di essere. L’immutabile produce assuefazione nel campo del desiderio e appiattimento dell’espressività e della creatività soggettiva, che sono il fondamento vero dell’identità. Se la nostra identità fosse immutabile, non saremmo cose desiderabili né per noi né per gli altri. Nulla permane immutabile e non condivisibile con ciò che gli è altro nel tempo. Ogni cosa è significativa se si trasforma, e l’identità sua e la nostra sta nel principio della continuità nella discontinuità.
Che significa questo? Ciò che nella trasformazione e attraverso la trasformazione persiste, al tempo stesso uguale e diverso da ciò che era prima. Per dirla in altri termini, siamo ciò che al tempo stesso siamo e non siamo, cioè costantemente eccentrici al nostro centro di gravità, perennemente spostati, inclinati verso l’altro fin da principio e per tutta la vita. Il nostro senso di identità si co-costituisce con l’altro nell’incontro con un vino, con il corpo di un amante, con un brano musicale. La nostra identità come amatori è costituita insieme all’identità dell’oggetto desiderato, amato. Ciò è in sintonia con il fatto che il nostro senso di identità è inseparabile dal processo dell’identificazione, che fa sì che nel nostro modo di essere abitino sempre altri modi di essere.
L’identificazione con l’altro è la condizione necessaria perché possiamo relazionarci con la sua differenza. Senza la differenza tra noi e l’altro la vita si spegne, ma senza l’identificazione con l’altro, con lui, lei, non sarebbe possibile alcuna relazione. Dunque identità, differenza, identificazione, intesa tra le differenze, sono indissociabili tra di loro.
Il vero significato, il più autentico significato dal mio punto di vista, dell’identità è essere presenti in se stessi nell’essere presenti nella relazione con l’altro. E questa identità è vicina nel suo nucleo centrale al tratto creativo, al gesto in movimento di un artista, e ne costituisce la firma nel tempo. Essa, ripeto, non permane com’era, simile in questo a Notre-Dame, al Colosseo, al Partenone: non resta immobile, inerte nel tempo, ma persiste nel suo perpetuo divenire.
E arriviamo all’identità come senso di appartenenza, modo con cui prevalentemente si usa oggi. Essa definisce il privilegio accordato a un’area di relazione perché la limitazione consente una maggiore profondità e significazione. Tuttavia l’appartenenza perde il suo significato se non si associa alla libertà di essere altro. Non si può essere italiani senza essere cittadini del mondo, parte della comunità umana, e viceversa. Non si può essere cittadini del mondo senza essere italiani, parte di uno spazio conviviale storico-geografico che rende più definite le relazioni. Essere solo italiani o essere solo cittadini del mondo impoverisce ugualmente la qualità degli scambi umani e crea un sistema di relazioni omologanti che annulla le identità e le differenze.
Abbiamo un tema quanto mai attuale che si lega al passato: le grandi liberazioni nazionali del passato hanno promosso uno spirito di aggregazione, l’Unità d’Italia, che ha costituito nuove comunità tra loro dialoganti anche attraverso dei conflitti collocati in uno spazio di pluralismo culturale, sociale e politico capace di aumentare il volume e la qualità degli scambi umani. Questo sono state le nazioni. C’è un libro bellissimo di Freud che parla dell’umanità come le diverse sale di un museo.
I sovranismi di allora hanno emancipato i popoli dal potere conglobante delle grandi entità imperiali. I sovranismi di oggi hanno una funzione disgregante: spingono verso il ritiro dalle relazioni con gli altri, si oppongono all’aggregazione delle nazioni in entità sovranazionali plurali che allargano lo spazio della convivialità, lo portano dalla convivialità tra i cittadini di una nazione allo spazio plurale di una convivialità tra popoli. Il sovranismo di oggi crea identità fittizie, “primi gli italiani”, un non senso, non relazionate tra di loro, riassorbite in una massa di disidentità globalizzate che si riproducono in tutte le parti del mondo uguali l’una all’altra nei loro riduttivi schemi mentali, comportamentali.
E arriviamo al lavoro, identità e valore nel lavoro. L’identità del lavoratore sta in primo luogo nel desiderio, nel coinvolgimento personale che si mette nella produzione di un oggetto e nel pagamento che si ricava dal costruire qualcosa di funzionale e utile alla vita, qualcosa di bello per il suo stare tra le cose del mondo in modo significativo e per la qualità che esprime, la tensione e la cura con cui è stato fatto, e anche la tensione e la cura che il suo uso consente e richiede. L’identità del lavoratore sta in secondo luogo nella condivisione del lavoro comune che produce con gli altri, anche quando il lavoro è meccanico e ripetitivo, se la produzione è il frutto di una collaborazione pensante e di un’assunzione comune di responsabilità: cosa produciamo, perché la produciamo, come possiamo migliorarla, qual è il suo valore d’uso per la comunità.
Dell’identità fa parte il conflitto con i proprietari dei mezzi della produzione, che indica non solo migliori condizioni lavorative, retribuzioni, ma anche la prospettiva della giustizia sociale, interesse collettivo che interroga e deve condizionare l’interesse privato. È indispensabile per la costruzione di aria del lavoratore e anche, e direi in modo particolarmente significativo, lo spazio della convivialità nei luoghi di lavoro, distrutto dallo smart working, che è sede di svago, di incontro degli sguardi, delle emozioni, degli affetti, dei pensieri, ma anche di fermenti culturali e di allargamento del significato del lavoro come strumento di espressione individuale e collettiva, ben al di là delle mere esigenze produttive.
La convivialità è il luogo dove si sposano l’identità del lavoratore e il valore del lavoro e del suo prodotto. Rimanda necessariamente all’altro tanto bistrattato tempo libero. Il tempo libero è in primo luogo presente in modo invisibile ma decisivo nel tempo lineare dell’attività lavorativa, tempo lineare, il ciclo, la catena produttiva. Il tempo libero è il tempo non lineare della sospensione del giudizio, epoché, dell’azione inoperosa, sospesa nella sua effettività, che mentre si compie non si chiude nel suo risultato ma resta incompiuta e aperta ad altre evoluzioni, ad altri significati, ad altre connessioni. L’azione inoperosa si espande oltre i suoi confini spazio-temporali, si incontra con desideri, emozioni, pensieri, azioni che vengono da altri luoghi, dal passato e dal futuro, e crea lo spazio in cui davvero ci sentiamo vivi e significativi. Non siamo vivi e significativi nel compiere un’azione, ma nello spazio laterale che produciamo dove veramente ci incontriamo tutto quello che ci ricorda, che ricordiamo e ci circonda, ed è la vera cosa importante per noi.
Nulla della nostra riunione resterà se si chiuderà nell’alternarsi delle relazioni, dei nostri commenti, se qua dentro tra di noi e fuori di noi non si creano odi, desideri, comunicazioni che si espandono al di là di quello che noi diciamo concretamente oggi, si espandono in quello che è accaduto nel passato, ci proiettano nel futuro e ci fanno comunicare con gli altri. Allora il lavoro non ha senso se non produce tutto questo.
Quindi il tempo della sospensione dell’effettività dell’azione, dell’azione inoperosa, è presente sotto forma di gioco in tutte le dimensioni della vita ed è indissociabile dalla realizzazione concreta di un prodotto di lavoro e rende il lavoro veramente creativo. Ma esiste, e non dobbiamo dimenticarlo, un tempo libero come dimora, che ha la sua dimora privilegiata nel tempo di vacanza dagli impegni, separato dal tempo cosiddetto socialmente utile, quando si prende cura dei propri affetti, delle proprie amicizie, dei propri cari, si fa l’amore, si legge un libro, si sente la musica, si va al teatro, al museo, al cinema, si fa sport o quando si gode semplicemente del dolce far nulla, magari chiacchierando con gli amici, godendo di un panorama, del mare, dei propri pensieri fluttuanti, di una brezza.
La dimensione del tempo libero, dentro e fuori l’attività lavorativa, la espande al di là dei suoi confini spazio-temporali, significandola in modo più profondo e ampio. E qui il lavoro può davvero uscire dal poíēsis, la produzione di manufatti che, come sapete, gli antichi filosofi greci non avevano in grande considerazione. Qui, in questo spazio laterale di ciò che produce lateralmente la sua concretezza, il lavoro può diventare prâxis, l’azione, il fare che ha come suo scopo la vita come opera dell’uomo.
Il valore del lavoro sta nella sua capacità di coniugare il bisogno primariamente psichico di abitare il mondo in modo sufficientemente stabile e sicuro e il desiderio di trasformare questo mondo, espandere la sua materia in tutte le sue forme animate, inanimate, materiali e culturali, in modo che consenta di appropriarsene come strumento di piacere e di soddisfazione e di amarlo, questo mondo. Il lavoro usa l’invenzione, la scoperta, per legare tra di loro in modo piacevole la necessità e il caso, il previsto e l’inatteso. Il piacere del vivere che anima il lavoro non alienato, piacere che dialoga con il travaglio creativo e il lutto delle proprie certezze, si trasmette dalla realizzazione di un prodotto all’uso che se ne fa. Il valore del lavoro, che in parte si riflette nel suo prodotto ma in parte viene dal viaggio che la meta – produrre Itaca – ha reso possibile, è profondamente legato al valore che produce il suo uso.
Lavoriamo per produrre una cosa, lavoriamo perché lavorando esprimiamo, realizziamo qualcosa di noi, e il valore di quello che produciamo dipenderà dall’uso che se ne farà. Un oggetto prodotto da un lavoro che aliena il lavoratore non è mai usato indipendentemente dalla qualità della sua costruzione in modo soggettivamente significativo, diventa un oggetto di consumo, un inquinamento in gran parte invisibile. Incombe su di noi un’enorme quantità di beni consumati distrattamente ma poco usati veramente, e questo ci riguarda tutti.
E arrivo per concludere alla società attuale e vorrei dire molto chiaramente che siamo vicinissimi a un punto di non ritorno, non perché la catastrofe incomba tra 1, 2, 5, 10 anni. No, cambiamo rotta o non potremo più fare nulla per evitarla. Comunque la consideriamo, la società attuale – ci sono molti modi di analizzarla in una maniera complessa e significativa – si appare come il prodotto di una globalizzazione che non è andata verso l’apertura dei confini e verso l’espansione della libertà, della democrazia, ma si è spinta invece nella direzione dell’autoritarismo e del totalitarismo e della conformazione degli scambi a un’ineguaglianza diventata strutturale.
Siamo testimoni di una concentrazione della ricchezza enorme e di un’angoscia espansiva della produzione, del consumo dei beni, entrambe – e questa è la cosa più importante – intimamente dissociate dai grandi problemi che ci attanagliano e incompatibili, a dire il vero, con ogni tentativo di farsene carico. È temibile il rapporto parassitario che il potere economico, la tecnostruttura di cui si parlava prima, ha stabilito con questi problemi: il degrado ambientale, le pandemie, la dissoluzione contemporanea dell’occupazione stabile e del tempo libero, la desolazione delle relazioni a partire da quelle erotiche. Li sfrutta per proporre soluzioni sempre nuove destinate a non risolvere nulla ma capaci di creare la mentalità – e questa è la cosa effettivamente difficile da affrontare – di un continuo adattamento al peggio. Questo adattamento è diventato silenziosamente il motore dello sviluppo produttivo. Così, di emergenza in emergenza, conviviamo con la distruzione progressiva del nostro sistema materiale, socioculturale e psichico. Viviamo in un’eccezione perenne non solo al diritto ma anche, più significativamente, alla qualità della vita.
Ciò implica un’eccezione alla politica, tagliata di fatto – dobbiamo riconoscerlo, è molto pericoloso – fuori dal processo di globalizzazione. La classe politica ha perso la sua tradizionale funzione di mediazione tra la necessità materiale, il desiderio, la forza che crea un mondo di persone emotivamente integre, in grado di vivere intensamente i loro sentimenti, di investire eroticamente, affettivamente, mentalmente le loro relazioni personali, lavorative, culturali e politiche e di gioire di questo investimento, godendo delle sue realizzazioni.
Siamo una società del bisogno che persegue l’eliminazione delle tensioni e del dolore, in cui si vive per non soffrire. Necessariamente la performance e la sottomissione alle procedure tecniche eclissano il lavoro creativo e il pensiero critico. Questa sottomissione alle procedure tecniche si manifesta nei test per i magistrati, fa parte di una mentalità troppo pericolosa e non viene da Nordio semplicemente. Nordio ne è vittima come tanti altri, e questo è molto più insidioso.
Prende quindi forma una società in cui i valori principali sono la prestazione e l’obbedienza, e in cui la sicurezza, cioè il funzionamento degli esseri umani e del loro sistema di vita secondo schemi prevedibili e riproducibili, sostituisce la sorpresa, la meraviglia e la scoperta. E quindi non viviamo nel mondo di scienza, ma nel mondo di tecnica, perché la scienza ha una caratteristica fondamentale: la scoperta non funziona secondo algoritmi. Nessuna scoperta scientifica la può fare un algoritmo. Scrivevo otto anni fa, con la speranza – ma si è dimostrata di essere smentito.
Cos’è il lavoro oggi, fondamento della democrazia, diritto inalienabile, realizzazione della creatività umana? Lavorare oggi è nella grande maggioranza dei casi un privilegio mal retribuito e precario, a cui aggrapparsi con tutte le proprie forze. Espropria gran parte della vita privata, dello spazio degli affetti, e ha come suo ideale l’automazione umana. Lasciato nella corsa folle verso la crescente spersonalizzazione dei suoi processi, il lavoro arriverebbe prima o poi ad avere come unica sua ragione la produzione di lavoratori autonomi e dell’occorrente per tenerli funzionanti in piedi.
L’alienazione del lavoro oggi è differente, abbiamo visto prima, ed è ben più temibile di quella in cui il lavoratore era parte della catena di montaggio, un ingranaggio della macchina produttiva, ma pur sempre fatto di materia umana. Al posto dell’incatenamento dell’uomo alla macchina, ci troviamo l’assimilazione, l’interiorizzazione della macchina da parte dell’uomo.
Concludo. La società performante ha il suo alleato più fidato in un dispositivo tecnologico impressionante e eticamente neutrale – ricordiamoci, non è dotato di etica – costituito come paradigma del vivere, perché detta i ritmi e le modalità della nostra vita e perciò dotato di quella che Giorgio Agamben chiama “forza di legge”: impone la sua legge come la imponeva Hitler. Il discorso di Hitler era dotato di forza di legge. È un meccanismo impersonale, capace di modalità molto sofisticate di calcolo, ma schematico e ripetitivo nella sua impostazione. Converte gli esseri umani in monadi indifferenziate e soggetta tutti, dominatori e dominati, alla sua logica autoreferenziale, alienando più i primi dei secondi – ricordiamoci di Elon Musk.
Se il lavoro diventa prestazione pura finalizzata alla produzione di strumenti eccitanti o calmanti, perde anche il suo valore marxiano all’interno degli scambi quantitativi e il suo prezzo si eclissa dalle dinamiche del plusvalore e del famoso mercato, e diventa oggetto dell’arbitrio del più forte, più precisamente dell’arbitrio dell’algoritmo, che non agisce né potrebbe agire secondo giustizia, perché è puro calcolo emancipato dal suo unico padrone legittimo, il pensiero affettivo, il pensiero critico fondato, come diceva Hannah Arendt, sul coinvolgimento profondo con gli altri sentimenti. L’algoritmo si è autonomizzato e si è messo al servizio di se stesso.
Così il lavoro sta diventando il campo privilegiato della massificazione e dissoluzione dell’identità, e l’aggressività, la paranoia, l’impulsività e la violenza cieca diventano fattori coesivi delle folle. È ingenuo indignarsi: hanno una loro funzione precisa che fa mercato, compattano l’assetto psichico e arginano l’effetto depressivo di una vita grama, creando l’impressione di una solidità, sì ingannevole ma immediatamente rassicurante. Producono un’esistenza opaca nella percezione di sé e opaca nel suo sguardo verso ciò che la circonda.
Grazie.