Le parole dell’ultimo ultimo sopravvissuto alla strage, Ferruccio Laffi, sono riecheggiate, commoventi, nella sala affrescata che ci ha ospitato.
“Io per me ero un uomo”, che dà il titolo al docufilm proiettato, è la frase di Ferruccio che, poco più che adolescente, ha così giustificato perché era scappato nei boschi con gli altri uomini, ritrovando, al suo ritorno, i suoi parenti trucidati.
Ci hanno accompagnato, nel ricordo, Patrizia Dogliani, ordinaria di Storia contemporanea all’Università di Bologna e l’avv. Andrea Speranzoni, che si è occupato della difesa delle vittime nel processo della strage di Marzabotto, in quello della strage alla stazione di Bologna e in altri riguardanti crimini internazionali (desaparecidos in America Latina).
I processi che hanno giudicato le responsabilità per la strage di Marzabotto Monte Sole, dal dopoguerra a oggi, sono stati due: quello celebrato davanti al Tribunale di Bologna nel 1951 contro l’ex Maggiore delle SS Walter Reder, che venne condannato al massimo della pena, e il processo che iniziò nel 2005 davanti al Tribunale Militare di La Spezia e che, tre anni dopo, si concluse con 10 condanne alla pena dell’ergastolo.
Una giustizia, sia pur tardiva, c’è dunque stata.
Una giustizia che si è ottenuta nonostante i dossier sulle violenze fossero stati volutamente nascosti. Tutti ricordano il cd. armadio della vergogna, che, a margine delle indagini per il processo a Erich Priebke per la strage delle Fosse Ardeatine, fu trovato con le ante rivolte verso il muro in uno scantinato di Palazzo Cesi a Roma: conteneva 695 fascicoli – riguardanti le stragi nazifasciste contro la popolazione e i prigionieri di guerra italiani tra l’8 settembre 1943 e la primavera del 1945 – che, nel 1960, erano stati archiviati “provvisoriamente” e cioè illegittimamente, utilizzando un istituto giuridico inesistente.
“Processare il ricordo” è il titolo che abbiamo voluto dare all’incontro, nella consapevolezza, avvalorata anche dalle relazioni della professoressa e del legale, che ricordare vuol dire anche accertare, ove possibile, in un dibattimento, le responsabilità penali dei singoli autori dei crimini.
Correttamente l’avv. Speranzoni ha evidenziato che in processi come questi non basta, come normalmente accade, stilare un capo di imputazione, tutto sommato semplice, e verificare se i fatti contestati siano provati e possano essere sussunti nelle norme contestate, ma si devono necessariamente utilizzare vari angoli visuali e molte chiavi di lettura.
Bisogna usare lo sguardo delle vittime e dei loro parenti che si trovano, per la prima volta, di fronte ai carnefici. Testimoni e parti civili costretti a verbalizzare l’orrore, a narrare fatti di cui per molto tempo non sono riusciti a parlare. Testimoni spesso anziani che con grande difficoltà sostengono le regole dell’esame e controesame. Si deve cercare di comprendere come la dimensione del dolore si rifletta nel ricordo e a volte porti all’incapacità di inquadrarlo.
Si deve usare lo sguardo dei carnefici che, nei crimini eliminazionisti, hanno ridotto la persona a oggetto. Il fenomeno che caratterizzò il massacro di bambini, donne e persone anziane totalmente estranei alla resistenza partigiana fu quello della loro deumanizzazione (Albert Meier, responsabile di aver ucciso undici bambini a Cerpiano, disse che eliminarono “soltanto bacilli di sinistra”).
Bisogna, infine, usare lo sguardo della storia per capire il contesto temporale in cui i fatti sono avvenuti.
Sono processi che mettono in gioco piani di lettura diversi, con “sconfinamenti” (così li ha definiti l’avv. Speranzoni) nella storia.
Storico e giurista (giudice o avvocato) fanno mestieri differenti: hanno tempi, metodologie di lavoro e finalità diverse.
Lo storico ha tempi dilatati, tendenzialmente infiniti. Il giurista ha i tempi del processo.
Lo storico mira alla verità fattuale. Il giurista deve ragionare in termini di verità processuale.
Lo storico ha come finalità la ricerca. Il giurista ha un ruolo ben preciso nel processo.
Il giurista, insomma, ha molti limiti e gli “sconfinamenti” devono essere inseriti nel procedimento penale e soggiacere alle regole che lo governano.
Questi mestieri diversi hanno trovato un punto di contatto nelle perizie e nelle consulenze tecniche che esperti storici (nominati dal p.m., dalle parti civili e dal giudice) hanno svolto, operando un lavoro preliminare sulle fonti (ad esempio documentali), individuando il luogo ove si trovavano, acquisendole e vagliandone la credibilità.
L’importanza di tale multidisciplinarietà ha portato a risultati importanti in quanto ogni singolo episodio di strage è stato ricostruito nel dettaglio, utilizzando, oltre alla memoria diretta dei testimoni, le cartografie dei luoghi dell’epoca e collocando le Compagnie militari in ogni zona e addirittura casolare dove i civili vennero ammassati e trucidati. Ad esempio, grazie alle “schede militari giornaliere” – che riportano tutte le attività di ciascun soldato – si è appurato che tre imputati, il 29 settembre, si trovavano sicuramente a Cadotto, in un casolare dove è avvenuta la strage della famiglia Gamberini e si è arrivati alla loro condanna.
Gli ottant’anni trascorsi dal più grave massacro di civili commesso dalle truppe nazifasciste nell’Europa Occidentale sono un tempo relativamente breve, che, tuttavia, noi percepiamo lontanissimo viste le grandi trasformazioni tecnologiche della società di oggi rispetto a quella contadina del 1944.
In realtà quel passato è ancora attuale, come dimostrano le tantissime vittime civili delle guerre contemporanee e di quelle che sono scoppiate, anche in Europa, nella seconda parte del Novecento (si pensi alla ex Jugoslavia).
Questo anniversario ci deve, quindi, far comprendere che Marzabotto e le altre stragi compiute all’epoca hanno ancora molto da dire e da insegnare ai cittadini italiani: prima di tutto a ripudiare la guerra e ad adoperarsi, utilizzando ogni forza istituzionale, per costruire percorsi di pace, cooperazione e convivenza fra i popoli.