Roberto Voza
Grazie. Sono veramente felice di essere qui a portare i saluti del Rettore e quindi dell’intera comunità universitaria. I saluti a questa iniziativa veramente magnifica organizzata dal Movimento per la Giustizia Articolo 3 e patrocinata, lo diceva Lilli Arbore, tra gli altri, dal nostro Ateneo nell’ambito delle iniziative del Centenario.
La nostra attenzione ai temi del lavoro si è recentemente arricchita, appunto, con la nascita di una apposita struttura: il Centro Interdipartimentale di Ricerca sul Lavoro, che si propone in qualche modo di rilanciare proprio la centralità valoriale del lavoro, provando a intercettare nuovi percorsi formativi e di ricerca e a porsi come interlocutore di iniziative di analisi, di monitoraggio, di progettazione di interventi.
Noi parliamo in Uniba da tempo di contaminazioni per manifestare che cosa? L’esigenza di una ricomposizione del sapere, in qualche modo volta a contrastare una eccessiva frammentazione del lavoro intellettuale e ad un approccio, appunto, contaminato e interdisciplinare. Il lavoro si presta, come sapete assai bene, rappresentando da sempre un ambito complesso di indagine continuamente esposto alle sfide dell’evoluzione umana, a partire da quella tecnologica, e per questo stimola un dialogo strutturale fra le diverse discipline.
In un volumetto di qualche anno fa dal titolo “Lavoro”, Stefano Massini esordiva proprio riflettendo sulla Babele di significati che questa parola ingenera. E così scopriamo che la radice sanscrita da cui discende il latino labor significa “afferrare ciò a cui si mira”, nel senso di conseguire ciò che si desidera. E beh, in fondo è tutto qui: il lavoro dovrebbe essere ciò che ci consente di conseguire quello che desideriamo come singoli e come comunità. A volte, in effetti, lo è, ma è un fatto che per una fetta consistente di umanità non lo sia affatto.
In questa bellissima carrellata di riflessioni, rappresentazioni, testimonianze, voi avete collegato il lavoro a due parole che lo avvolgono concettualmente. Sono le coperte che lo riscaldano e lo, come dire, curano dai graffi di un’epoca confusa: valore e identità, le due parole che più di tutte restituiscono alla sintassi del lavoro la sua grammatica umana.
Se ci voltiamo indietro sappiamo bene che l’età moderna è stata l’età del lavoro come fatto umano totale, come terreno di dissoluzione degli antichi vincoli di status e di costruzione di nuove relazioni e di nuove soggettività. Cioè, sulle gambe del lavoro è cominciata la lunga rincorsa fra le due concezioni di eguaglianza che si ricompongono emblematicamente appunto nell’articolo 3 della Costituzione, dove l’eguaglianza valica il confine della cittadinanza politica e si colloca nello spazio della cittadinanza sociale, e quindi istituisce un nesso originario tra lavoro e Repubblica e, in ultima analisi, tra lavoro e democrazia.
Il lavoro come strumento di realizzazione della persona, diciamo sempre, si rivelò allora appunto il valore su cui far convergere un percorso di unificazione della società nella trama dei valori costituzionali. La tutela della persona che lavora diventa una questione di democrazia, di distribuzione di potere sociale e di libertà materiale che consente, appunto, l’effettiva partecipazione all’organizzazione politica, economica e sociale del Paese.
Ma non possiamo non guardare al presente, e voi lo fate benissimo. Non possiamo non guardare al presente, soprattutto al futuro del lavoro, anzitutto chiedendoci se esso sia ancora il principale strumento di realizzazione dell’identità di ciascuno di noi. Ecco spuntare la seconda parola del vostro titolo: identità.
Beh, un tempo la domanda “Tu cosa fai?” intendeva dire “Che lavoro fai?”, erano equivalenti. Oggi, se rivolgiamo questa domanda a un giovane che lavora, non è detto che ti risponda parlando del suo lavoro. Che cosa voglio dire? Cioè che la ricerca di una identità fuori dal lavoro può anche esprimere una scelta di vita, può anche essere una forma di emancipazione, ma spesso è solo il riflesso del decadimento della qualità del lavoro disponibile.
Questo è il tema che attraversa i nostri tempi, ci chiama a cooperare e a riflettere. Fra i tanti messaggi confusi di questa epoca confusa, preoccupa quella idea strisciante che, approfittando della crisi del lavoro come ideologia – per citare il titolo del famoso libro di Aris Accornero di tanti anni fa – tenta di negare al lavoro persino la sua antica opportunità di riscatto sociale, di realizzazione della propria identità, come se il riscatto non fosse più affidabile al lavoro.
Beh, allora lasciatemi dire, in conclusione, che iniziative come quelle di oggi sono certamente utilissime a contrastare una simile deriva.
Grazie e buon lavoro.