Sara
Ha un’età apparentemente indefinita, forse cinquanta, forse sessanta o qualcosa in più, o in meno.
È una madre, moglie, figlia, una qualsiasi persona che incontri per strada, a scuola, in ufficio, andando a fare la spesa.
Ha un’aria dimessa, un vestito grigio, nessun accessorio colorato o luminoso, niente anelli alle mani, due semplicissimi orecchini, un foulard poco vistoso.
Siede sul banco dei testimoni, come tante donne hanno fatto prima di lei e come, purtroppo, faranno tante altre.
A capo chino, voce dal tono costante, racconta la sua vita in modo piano, non si emoziona, non piange, ma non per mancanza di sentimenti, è solo la consapevolezza di avere vissuto quella vita.
Matrimonio da giovani, così giovane da dover abbandonare anche il liceo, tante speranze, tanta gioia, una piccola famiglia modesta, lavora solo l’uomo, la donna accetta di occuparsi di tutto il resto, comprese le due figlie che ben presto arrivano.
Quando è arrivato il cambiamento? Cosa è accaduto? L’analisi è lucida, è evidente la lenta ma costante maturazione della donna.
Nessun cambiamento, in realtà è sempre stato così, una violenza sottile, quotidiana, l’imposizione di una vita, del “qui comando io perché tu non sei capace”, “sono io che porto i soldi a casa”, “che esci a fare? Hai tanto da fare in casa”.
Violenza. Cosa vuol dire violenza? No, non è mai stata massacrata di botte, qualche spintone, forse un paio di schiaffi, niente di clamoroso, ma quella voce, quelle urla, la mancanza di risposte alle sue mute domande, ecco, questa è violenza? Sbattere la porta di casa, non dare i soldi per la spesa se non quando lo decideva lui, ogni decisione era solo e soltanto la sua, si può dire che è violenza?
Quando ha visto il suo terrore anche negli occhi delle sue figlie, quando le ha viste tremare alle urla del padre, allora ha capito che era tutto sbagliato.
È un anno che è stato allontanato da casa, no, non lo vede più, le figlie sono grandi, decideranno loro il rapporto con il padre; ha trovato un lavoro in un supermercato, le consente di vivere senza dipendere da nessuno, neanche da lui a cui non ha chiesto niente.
Infine, alza la testa, gli occhi finalmente le brillano: «Sa signor giudice? Finalmente ho realizzato il mio sogno. Ho ripreso a studiare, a frequentare la scuola di sera!»